Skip to main content

UNA PROSPETTIVA DIVERSA

Gigia era rovesciata e anche capovolta. La si vedeva appena coprendosi la testa con un tendalino nero. Lui la guardava incuriosito, non per il fenomeno ottico, ma perché non sapeva quando e perché avrebbe dovuto interrompere lo sguardo: comunque, andava bene anche così. Indugiava sul corpo nudo, che lui conosceva dorato e tonico; eppure adesso percepiva di più, oltre l’immagine del vetro opalino.

La coppia si era conosciuta sei mesi prima, durante una gita sul Lago, in montagna. Il sole primaverile scaldava anche gli animi e lo stare insieme della comitiva. Nel gruppo, folto, molti erano armati di fotocamera; e si dedicavano a ritrarre quanto li circondava: l’acqua, l’orizzonte, le nuvole nel cielo. Lui osservava tutti con curiosità, specialmente Gigia; che all’improvviso pareva aver visto un fantasma nell’azzurro, o anche in mezzo all’erba appena accennata, corta come il pelo di un grosso animale. Avvicinandosi a lei, provò a identificare meglio dove venisse puntato l’obiettivo. Non capiva.

“Cosa fotografi?”, domandò.

“Ciò che mi piace”, rispose lei. “Tutto quanto possa emozionarmi”.

“Direi che basta poco”, ribadì lui. “Il cielo azzurro e due nuvolette cosa ti suggeriscono?”.

Lei parve contrariata a quella domanda e s’imbronciò continuando a guardarlo. Gigia gli piaceva anche così, molto; ma non seppe sostenere lo sguardo irritato che continuava a fissarlo.

“Scusa”, disse. La donna non rispose.

Da quel momento iniziò a sentirsi inadeguato. Le voci del gruppo gli arrivavano come ovattate, indistinte. Qualcosa lo allontanava da tutti e iniziò a camminare da solo verso l’acqua: alle volte fermandosi per disegnare dei cerchi con lo scarpone.

Si sentì chiamare: “Alberto, vieni qui; scattaci una fotografia”.

“Dove vi mettete?”, domandò.

“Non importa”, rispose una donna del gruppo, “Riprendici quando non ce ne accorgiamo; se non so di essere fotografata, vengo meglio”.

Continuava a non capire: al pari di prima, con Gigia. Come si sarebbe potuto fermare la realtà senza condizionarla? La fotografia, per lui, rappresentava una reliquia oggettiva: non da venerare, ma almeno da plasmare per come la si sarebbe voluta. E poi, perché recitare una disinvoltura creata? Quell’atteggiamento non rappresentava una finzione maggiore? E peggiore per giunta?

Gli porsero una fotocamera, e lui tentò di operare al meglio. Tra uno scatto e l’altro, guardava lo strumento che aveva tra le mani. Iniziava a piacergli: ne rimase meravigliato.

In negozio, lo riempirono d’informazioni. Lui cercava di comprendere, ma la stessa nomenclatura gli appariva indigesta. C’era un obiettivo per i ritratti, perché? I pittori usavano pennelli diversi per i mezzi busti? La domanda, pronunciata a voce, sarebbe risultata ridicola, per cui decise di prendere per buono tutto quanto gli veniva detto.

“Ci pensi”, a un certo punto pronunciò il commesso.

“A cosa?”, avrebbe voluto domandare Alberto. E poi non voleva uscire a mani vuote, per cui scelse un apparecchio: quello che gli piaceva di più, esteticamente. S’immaginava di fianco a Gigia, a guardare come lei. Forse la donna l’avrebbe perdonato: di ritorno dalla gita sul lago, non si erano neanche salutati.

“Voglio anche uno di quelli”, disse Alberto al commesso.

“Un treppiede?”, domandò l’altro meravigliato.

“Mi piacciono”, ribadì il neo fotografo.

Alberto quel giorno spese un capitale: non per la cifra in sé, ma perché era stata dedicata alla fotografia. Si sentiva comunque bene; e una curiosità nuova montava tra le idee della mente. Gigia cosa avrebbe detto?

Iniziò per Alberto un periodo di studio assiduo. Comprò libri, manuali, consultò la rete. Chiese pure molti consigli, anche perché scoprì come molti colleghi di lavoro fossero appassionati allo scatto fotografico.

Rincasava la sera e quasi non cenava. Il fatto di vivere da solo gli consentiva di gestire, al meglio, tempi e modi. La fotocamera era sempre a portata di mano: in cucina o sul divano. Ogni tanto scattava, scattava e riguardava. Correva anche al computer, per rivedere le immagini di ieri. Passavano i giorni e le perplessità tecniche crollavano l’una dietro l’altra. Rimaneva da comprendere l’uso del treppiede, che solitario troneggiava in mezzo al salotto. No, non lo incuriosiva la fissità d’immagine che gli avrebbe restituito, ma l’aiuto che si aspettava da esso, consapevolmente; persino con Gigia.

Il gruppo dello Lago si radunò per una cena. I dialoghi, inevitabilmente, iniziarono a occuparsi di fotografia. Lui per un po’ stette in silenzio, poi s’intromise: quasi all’improvviso; conosceva gli autori dei quali stavano parlando. I commensali lo guardarono stupiti, compreso Gigia; i cui occhi azzurri apparivano più grandi. Era bella.

“Facci vedere qualcosa”, disse un amico ad Alberto.

“Vedremo”, rispose lui. Non ne era convinto.

Di ritorno a casa, a notte fonda, pose la fotocamera sul treppiede, puntandola verso la libreria. Con le mani iniziò a gesticolare, quasi dirigendo un’orchestra. Lui e l’obiettivo erano distanti, eppure vicini negli intenti: poteva spostare oggetti, tende, vasi, libri; e poi scattare, facendolo di nuovo subito dopo. Aveva trovato un amico.

Alla comitiva piacquero le sue fotografie. Lo sguardo di tutti era ricco di ammirazione, il che lo riempì di un orgoglio nuovo; ma non volle accontentarsi. Ormai studiava tutte le sere e le difficoltà aumentavano, assieme ai dubbi; che solo il treppiede riusciva a sciogliere.

Arrivarono altre gite, diverse, entusiasmanti. Comprese come la fotografia potesse costituire un pretesto, quasi un diversivo; ma non se ne preoccupò. Era padrone dei gesti, del comportamento; in più obbediva al proprio pensiero: lucido, capace, esigente; mai contento.

A Venezia, Gigia si avvicinò con garbo; assieme a Patrizia, un’amica.

“Ci scatti una fotografia?”, chiesero le due donne.

Il cuore gli batteva in gola, e quasi non riusciva a rispondere. Guardava le due amiche che intanto si aspettavano una risposta.

“Allora?”, ribadirono entrambe.

Alberto si rivolse all’amico, che aveva in spalla. L’aprì e iniziò a sistemarlo. Guardava, scorgeva, capiva. Un’eccitazione nuova pareva pervaderlo e le due amiche ne furono coinvolte, quasi per contagio. Stava nascendo una complicità antica: quella del consenso, della visione comune. Ormai erano altrove, Alberto e le due donne; che peraltro si lasciavano suggerire pose e atteggiamenti. Stavano creando momenti: alle volte esagerando, più spesso mettendosi ad aspettare. Quando finirono, al trio sopraggiunse una stanchezza nuova, piacevole: come se un’energia imponente si fosse mossa dai loro corpi, per andare altrove, dove il tempo si sarebbe fermato diventando materia. Per sempre. Gigia guardava il suo fotografo soddisfatta.

Alberto studiava in continuazione. Mise anche in discussione lo strumento, che avrebbe voluto rompere, con l’idea di guardarvi dentro. Comprò vecchie fotocamere per capire meglio, mettendosi ancora in gioco. Quando portò a casa quell’enorme soffietto comprese come il cerchio stesse per chiudersi: non avrebbe potuto scattare senza l’aiuto dell’amico e della consapevolezza che sapeva restituirgli.

Non sapeva contenere l’emozione. Di lì a poco, Gigia avrebbe suonato alla porta; si erano dati appuntamento giorni prima. Stare fermo gli risultava impossibile: metteva a posto oggetti e ripassava mentalmente una parte, che di sicuro non sarebbe riuscito a recitare.

Quando la donna entrò in casa, si salutarono appena. Lei guardava intorno incuriosita, alle volte lasciandosi sfuggire qualche sorriso. Porse il cappotto ad Alberto, sempre osservando libri, oggetti, fotocamere.

“E questo?”, chiese lei.

“E’ un banco ottico”, disse lui.

“Lo so, ma perché?”

“Mi piaceva”, rispose Alberto. “E’ lento, esigente; in più mi fa scegliere l’istante che voglio, non uno tra tanti”. “E poi, quando scatto, non vedo il soggetto: tutto è già svolto, anche se deve ancora compiersi”.

“Perché non cerchi con me il tuo istante?”, chiese Gigia.

Lui ne fu meravigliato, ma non si perse d’animo.

“Va bene”, rispose; e iniziò ad armare il grosso apparecchio, prestando tutte le attenzioni possibili. Lei intanto iniziò a svestirsi, senza che lui se ne accorgesse.

Quando Alberto poggiò nuovamente lo sguardo su di lei, ne riconobbe la pelle dorata. Un leggero sorriso suggeriva consenso, che riconobbe anche sul vetro smerigliato. L’incarnato poteva solo immaginarlo, ma comparve una Gigia diversa, poi un’altra, e un’altra ancora.

Era il momento: chiuse l’obiettivo e montò lo chassis, sfilandone poi l’antina.

Potevano solo guardarsi adesso i due, aspettando un istante: quello loro, eterno più della vita.