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Carlo Carletti

“IL MATRIMONIO RACCONTATO CON UN BIANCO E NERO DI CLASSE. E’ REPORTAGE, QUELLO DEI GRANDI”
Carlo Carletti
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

Carlo Carletti è un fotografo di matrimoni. Non abbiamo detto “matrimonia- lista”, perché del termine non ci piace la troppa specificità. L’incontro con lui ci ha aperto a considerazioni complesse sulla fotografia nel suo insieme, soprattutto su quei modelli di comportamento inerenti al linguaggio fotografico e non solo. Nel nostro dialogo ha vinto la fotografia, il racconto che può sviluppare, il bianconero voluto e cercato, quell’immagine senza tempo che è dei grandi ai quali lui stesso appartiene. Carlo Carletti si occupa di reporta- ge: tra luoghi e gente, questa è la verità. Crediamo che la via del matrimonio consista in una scelta oggettiva, di committenza: ma il nostro plauso deve iniziare proprio da lì; perché i valori che riesce a mettere in campo sono i soliti, lucidi per coerenza e sincerità; con il coraggio, oltretutto, di offrire al genere (il wedding) l’autorialità che non ha mai avuto. Di certo, la porta stret- ta di un percorso obbligato amplifica quella maestria coltivata tra i sogni giovanili: dove il soggetto vive per chi guarda e non per il fotografo.

Carlo si occupa prevalentemente di cerimonie commissionate dall’estero. È il modello italiano a vincere: tra scatto e sceneggiatura. Questioni di credi- bilità, che però meriterebbero ulteriori riflessioni. Esiste un’idea italiana di fotografia, che poggia magari sul neorealismo e anche su un volto italico del Dopoguerra; ce n’è anche un’altra, però, quella di un’Italia buona, dove anche i «ladri di biciclette» non vivono ai margini, ma sono portavoce del linguaggio sociale del tempo. Al di là della retorica, c’è un comportamento da difendere: un atteggiamento alla vita. Dalle immagini di Carlo traspare anche questo: tra le comparse mute di un vaporetto veneziano o la pioggia romana attraverso il vetro di un’automobile. È qualcosa di nostro, che ci riguarda tutti e che Carlo porta continuamente a galla. Anche questo si può chiamare coraggio? Un’altra riflessione, ma la lasciamo al lettore.

Iniziamo dalla fine. Hai pubblicato recentemente un libro sul matri- monio, perché?

Sì, si tratta di “Fotografie di Matrimoni”, edito da Marsilio e curato da Denis Curti. Già il titolo parla d’immagini e non di un genere: questo è importante. La voglia di pubblicare un libro “a tema” parte però da lontano, con lo scopo principe di generare un cambio di mentalità, restituendo poi alla fotografia di cerimonia l’autorialità che merita. Si può raccontare anche di fronte a una coppia di sposi e ai loro invitati, senza riserva alcuna.

Da cosa derivavano tutti i pregiudizi che abbiamo sentito negli anni?

Molto schiettamente, è un problema che non mi riguarda, non faccio diagnosi per una malattia che non esiste. Di certo le circostanze della cerimonia non aiutano: tutto si sviluppa in un giorno e l’archivio muore nel momento in cui nasce. I grandi del reportage attingono le loro mostre proprio dal passato e questo per il matrimonio è difficile. Non può essere però una scusante, ecco tutto; nel mio caso, sempre di reportage si tratta.

Carlo, quando inizi a fotografare e perché?

Piuttosto tardi, a 29 anni: durante il corso di Laurea avevo un po’ di soldi ed ho acquistato una Pentax.

La formazione, come l’hai curata?

Sono autodidatta. Ho cominciato a comperare i volumi di Adams, i libri dell’ap- plicazione alla stampa, i manuali di tecnica e così via. Mi sono anche inserito nel gruppo “La Bottega dell’Immagine”, che peraltro esiste ancora. Lì ho conosciuto un fotografo che mi è stato molto d’aiuto: nel B/N e per la Camera Oscura. Sai, all’inizio le cose non vanno come ti aspetti: commetti tanti errori e le fotografie non vengono come vedi sulle riviste. Una volta affinato il tiro (HP5, D76, stampa con luce diffusa) mi sono creato una mia visione. Ho anche frequentato un Workshop con Gianni Berengo Gardin, presso la fondazione Marangoni.

Hai vissuto momenti intensi...

Sì, ed è venuto anche il primo lavoro: dedicato ai bambini dell’istituto Santa Regina, dove peraltro svolsi il servizio civile. Ero dotato di Leica allora e intitolai tutto “Quei Ragazzi di Santa Regina”. Ricordo che il mio operato non piacque a Francesco Cito, incontrato a Siena per via del Palio; gli sembrò troppo posato. Tu sei nato nel reportage... Sì, la professione, quasi per invenzione, mi ha portato a fotografare le persone: da qui la mia propensione al matrimonio. A livello personale, ho conservato la passione per i luoghi: come la Maremma, che ho fotografato per anni. Su quella parte della Toscana ho pubblicato due volumi: il primo, Terra Agra, è dedicato a Luciano Bian- ciardi; il secondo, Maremma, ha un connotato più panoramico, perché nel frattempo mi ero dotato di una Silvestri e di un atteggiamento più da “treppiede”.

I volumi sulla Maremma sono i tuoi primi lavori editoriali?

No, il primo libro è stato “Luce Chiara”. È dedicato agli androni dei palazzi di Siena e parla di una città chiusa, intima.

Quando hai iniziato come professionista?

A 30 anni. Mi ero laureato a 29. Mi sono fatto dare 20 milioni e ho aperto uno studio. Avevo perso mio padre, per cui vestivo anche il ruolo di padre di famiglia. Mia madre mi voleva avvocato anche nella professione: era disperata.

Hai cominciato con uno studio?

Sì, a Poggibonsi: prima con un socio, poi con un altro...

Subito col matrimonio?

Beh, no. Il tentativo era quello di lavorare nei settori elettivamente professionali, tipo: pubblicità, brochure e via dicendo. Passai al matrimonio per incrementare le entrate, ma all’inizio vivevo il tutto come una sconfitta. Per caso m’introdussero nell’ambiente inglese e americano. Ritrassi la prima cerimonia nel ’98. Ricordo che mostrai prima un album tradizionale, poi un altro in B/N: davanti al quale cercai di essere convincente, anche perché parlava il linguaggio del reportage.

Come andò a finire?

Feci quel lavoro e piacque anche a me: raccontai una storia. Che dire? Sono stato fortunato: se non fosse andata così, sarebbe stata dura. Anche l’avere lo studio a Poggibonsi si è rivelato indicato, perché era vicino a tutte le destinazioni toscane più ricercate (San Gimignano, Siena, Firenze).

Insomma, hai aperto un canale oltre l’Oceano e la Manica: ti sento soddisfatto per questo?

Non voglio sembrati snob, ma all’estero (soprattutto USA e UK) tu sei “il professionista”, “il fotografo”, l’autore che racconta la storia di una giornata.

Hai avuto degli elementi ispiratori? Altri fotografi che hanno avuto un influsso su di te?

Forse lo hai capito: Berengo Gardin su tutti, per il reportage è ovvio. Debbo dirti che ho amato anche Salgado. Sulle prime, ti sembra un po’ epico; poi ti accorgi che ha tanto mestiere. È un uomo straordinario.

Insomma, quasi d’incanto inizia una carriera fatta di matrimonio e reportage insieme; la stessa che poi ti accompagna anche oggi... Esattamente.

Quali sono le qualità per affrontare questa “doppia” disciplina fotografica?

Per prima cosa, è importante il fattore umano: ti debbono risultare simpatiche le persone. Se ti rechi alla cerimonia un pò demotivato, senza la curiosità di indagare, il lavoro non inizia sotto dei buoni auspici.

Cosa può incuriosire?

Beh, già il fatto che una coppia venga dagli USA per sposarsi dovrebbe indurre qualche domanda. Io approccio sposi e invitati con un atteggiamento scherzoso, alle volte scimmiottando Alberto Sordi; tutto ciò apre un po’ le porte e crea il clima giusto. Tieni conto che spesso incontro i miei soggetti solo il giorno della cerimonia. Una volta che il meccanismo si è messo in moto, esco di scena e inizio a fotografare; questo senza mai scomparire. Debbono sentire che ci sono, con una presenza quasi intimidatoria. Insomma, per fare il mio mestiere bisogna essere dotati di simpatia, umanità ed anche di un istinto vigile che abbia un influsso su chi verrà fotografato.

Fino ad adesso mi hai parlato di qualità “umane”, cosa puoi dirmi in- vece relativamente a quelle tecniche?

Occorre usare la luce lampo con moderazione. Oggi, in tal senso, la tecnologia ci viene in aiuto. Col digitale stiamo riscoprendo la luce ambiente, il che è un vantag- gio. Gli ISO a disposizione sono veramente abbondanti.

Con le tue affermazioni mi hai reso curioso: perché una coppia statu- nitense dovrebbe venirsi a sposare in Italia?

Per prima cosa, molti sono figli d’immigrati italiani. Del resto, la nostra nazione è amata all’estero, rappresentando anche un luogo turistico d’eccellenza. E poi c’è la “dolce vita”, l’idea dei paparazzi, il mito di Ravello (Amalfi) nato con la famiglia Kennedy, il buon cibo. Insomma, come dicono loro: “In Italia si sta bene”.

Il matrimonio anglosassone e quello “nostrano” vivono delle stesse regole?

Gli americani, ed anche gli inglesi, sono molto più organizzati, il che per chi ci lavora in mezzo rappresenta una bella comodità. I loro matrimoni sono molto più curati, già nei ruoli. Tra gli ospiti puoi trovare il “Best Man”, che poi è un testimone con dei compiti operativi. Il gruppo degli invitati è poi diviso in gruppi omogenei: sposo e amici, ad esempio, sono vestiti alla stessa maniera. C’è poi un altro aspetto che distingue le loro cerimonie dalle nostre: inglesi e americani si divertono a fondo; non vedi nessuno che sta seduto in un angolo come un estraneo. Da loro c’è l’angolo dei discorsi e poi si balla: tanto. De Sica diceva: “Come ballano gli americani non balla nessuno”; forse gli ebrei anche di più.

Cosa restituisci agli sposi alla fine del tuo lavoro?

Dei libri di mia ideazione, con delle foto rilegate. Sono fatti a fascicoli, quasi dei Moleskine, ma molto grandi; e poi un DVD con tutti gli scatti.

Quindici anni di carriera: c’è un progetto o un sogno che non sei riuscito a portare a termine ma che è ancora nei tuoi obiettivi?

Non mi viene da pensare a nulla: non ho alcun rimpianto. Ho vinto due volte il riconoscimento internazionale più importante (del mio genere, è ovvio) e non sono riuscito a sfruttare a fondo la prima occasione; la seconda volta vorrei non sbagliare. Il mio sogno è approdare a New York, presso le famiglie numerose: che non potreb- bero quindi venire in Italia.

Non pensi che ti verrebbe a mancare l’italianità? Quella di Fellini, della dolce Vita?

Forse, ma potrei esportare l’italian style: il nostro modo di vedere il matrimonio.

Tu imposti il tuo lavoro come un racconto?

Sì, chiaramente “chiedo” qualche scena e faccio in modo che qualcun’altra venga ripetuta.

Chi è il personaggio principale del tuo racconto? La sposa: è ovvio. Lei fa tutto e decide ogni cosa. Se riesci a conquistarla, hai già venduto il servizio.

Le tue donne sono molto belle...

Beh, tu hai visto quelle del sito. La bellezza, purtroppo, aiuta: nella spontaneità ed anche nella consapevolezza. Diciamo che va incontro anche al fotografo, che può divertirsi: in caso contrario, occorre lavorare per il decoro; ed è un’altra cosa.

Che tipo di donna esce dalle tue immagini? Non è una donna fashion e neanche alla moda. E’ spontanea e si mette in gioco: diver- tendosi; in lei manca anche la vanità. Tieni conto che anche la mia impostazione al lavoro aiuta molto; le pose che “chiedo” sono particolari: alle volte faccio anche saltare gli invitati.

Mi hai già detto che vieni dall’analogico: qualche rimpianto?

Quel tipo di rimpianto lo abbiamo tutti. Con la pellicola c’era più poesia, per via di rischio maggiore; e oggi, con tutto il controllo che abbiamo, possiamo rendercene conto a fondo. La paura di sbagliare, però, ti restituiva quell’adrenalina utile per andare avanti, per cercare lo scatto venturo: quello migliore. Col digitale sei quasi “narcotizzato”: il che mina la creatività. C’è poi l’effetto “cotto e mangiato” che ti toglie di dosso l’inquietudine verso ciò che stai facendo. Per questo le foto che vediamo sono tutte uguali: manca quella “sbagliata”, che poi era la più bella di tutte.

In tanti anni, chissà quanto episodi curiosi ti sono capitati...

Non ne ricordo uno in particolare; diciamo che siamo in una situazione limite, dove tutto deve funzionare bene: perché quando vieni dagli USA, nessun ostacolo può (né deve) fermare la cerimonia.

Prima abbiamo parlato delle qualità necessarie per affrontare il tuo lavoro. Quali sono invece le difficoltà?

La difficoltà principale risiede nell’abitudine: il lay out è sempre quello. Alle volte non hai voglia di essere divertente e neanche di entrare in scena. Perché, non dimentichiamolo, il mio approccio alla cerimonia è comunque scherzoso; siamo a una festa e la gente vuole divertirsi. L’altra grande difficoltà sta nell’unicità dell’evento, e non puoi sbagliare. Sappi che, comunque, siamo sempre in due. Nessun problema deve concretizzarsi.

Chi viene con te è un assistente?

No, un secondo fotografo.

Simpatia, italianità: il fotografo per gli USA ha un ruolo ben preciso...

Sì, perché è atteso. Un matrimonio, senza fotografo, non sarebbe veramente tale.

Ti vesti anche in maniera particolare?

Giacca e cravatta: questo perché non conosco il contesto nel quale lavorerò. Posso trovarmi a Venezia, con tutti gli invitati in lungo. Tieni conto che c’è anche l’esigenza di mimetizzarsi: con l’abito buono, posso andare in giro senza essere notato troppo. Nel matrimonio qual è il momento più bello?

Quando si va via. Hai scattato ciò che ti serviva e senti di avere una storia tra le mani. La festa, comunque, è il momento più divertente.

Ci sono delle foto alle quali sei affezionato più di altre?

Quelle che ho messo nel mio sito sono le immagini che preferisco. Io, però, non mi affeziono alle fotografie ottenute per lavoro, ma a quelle che vengono da una ricerca personale. Non potrebbe essere altrimenti.

Esegui da solo il ritocco?

Sì, se non intendi la “cosmesi”: perché quella non la faccio. Diciamo che sistemo i file per la stampa.

Parti dai livelli?

Certo, poi converto il tutto in B/N. Uso Light room ed esporto in TIFF. Del resto, “brucio” e “maschero”, come si faceva in camera oscura.

Se potessi farti un augurio da solo, cosa ti diresti?

Vorrei vivere 10 anni buoni e poi cambiare strategia: incarnare più l’autore e meno il professionista da committenza. Insomma, mi piacerebbe vendere le mie opere.



Buona fotografia a tutti

Carlo Carletti

Carlo Carletti è nato nel 1966 a Casteldelpiano (GR).

Dopo importanti pubblicazioni sul paesaggio toscano ha concentrato la sua attenzione sulla fotografia di matrimonio. Nel 2005 la rivista ‘Kult’ l’ha selezionato come uno dei 4 più importanti fotografi internazionali nella fotografia di matrimonio, con la pubblicazione di un’edizione speciale su questo argomento. Nel 2006, Carlo è finalista al Concorso “Images of the Year”, per la rivista “American Photo”. Nel 2007 WPJA (Associazione Wedding fotogiornalistico) l’ha celebrato come ‘Photographer of the Year 2006’, titolo che raggiungerà anche nel 2009, diventando così il primo e unico fotografo al mondo ad averlo vinto per due volte. Nel 2013, pubblica per Marsilio Editori il volume “Fotografie di Matrimoni”, a cura di Denis Curti. Il volume raccoglie una selezione degli scatti più belli della sua carriera di fotografo di cerimonia, realizzati in Italia e all’estero. .