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UNA BANDIERA ROSSA SU BERLINO

Oggi incontreremo una fotografia costruita, ma non ingannevole: celebra la vittoria dell’URSS sulla Germania nella Seconda Guerra Mondiale. Una storia interessante.

Aveva ventotto anni, il fotografo Yevgeny Khaldei, quando scattò l’immagine più famosa della vittoria dell’URSS sulla Germania: la bandiera rossa issata dai soldati sovietici sul Reichstag, la sede del parlamento tedesco, il 2 maggio 1945. Khaldei aveva visto la fotografia della bandiera americana issata sul Monte Suribashi, a Iwo Jima, nel febbraio 1945, scattata da Joe Rosenthal. Voleva fare qualcosa di simile, riuscendovi peraltro.
Khaldei arrivò a Berlino con un enorme drappo rosso formato da due tovaglie cucite insieme con una falce e martello applicata sopra, opera di un sarto a Mosca. Reclutò in strada tre soldati e con loro mise in scena l’evento sul tetto dell’edificio. Come già a Iwo Jima, una bandiera era già stata innalzata qualche giorno prima, il 30 aprile; ma nel cuore della notte, al buio, mentre ancora si combatteva. Ora che la battaglia per il Reichstag era finita, Khaldei potè scattare con calma le sue trentasei fotografie, un intero rullino.

Uno degli scatti divenne subito famoso e venne pubblicato sul settimanale illustrato Ogonek il 13 maggio. Per offrire ulteriore drammaticità all’immagine Khaldei aggiunse un po’ di fumo sullo sfondo, come se i combattimenti fossero ancora in corso. Non fu l’unica operazione ritocco. Venne notato che il secondo soldato della foto, quello che sostiene chi sta issando la bandiera, aveva due orologi al polso. Poteva essere il segno di qualche qualche saccheggio. Il secondo orologio fu così rimosso.

Yevgeny Ananievich Khaldei, come fotografo di guerra aveva documentato tutti gli anni del terribile fronte orientale, dal 1941 in poi, per conto della TASS. Ebbe gloria e onori, fu presente alla conferenza di Postdam e ai processi di Norimberga. Ebbe anche guai per il suo essere ebreo e fu licenziato dalla TASS. Venne riassunto dalla Pravda dopo la morte di Stalin.

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QUARTO POTERE AL CINEMA

1 maggio 1941. "Quarto Potere", il primo lungometraggio del giovane regista Orson Welles, esce in tutte le sale cinematografiche americane. E’ considerato un capolavoro della cinematografia mondiale.

Gli scorsi anni ci occupammo dell’Empire State Building (inaugurato il 1° maggio del 1931), della Festa dei Lavoratori, ma anche di Sally Mann (nata nel 1951, sempre il primo giorno di maggio) e Ayrton Senna (deceduto nel 1994 a Imola).
Ci sarebbe tanto altro da dire, in questo 1° maggio; perché la fotografia è come la vita: propone e ripropone, salvo poi sorprenderci quando esce dal cassetto, inaspettatamente, facendoci ridere, piangere e meravigliare.

Torniamo a Quarto potere. Il titolo originale del film è Citizen Kane, cioè il cittadino Kane: l’incarnazione del sogno americano, la storia di un cittadino umile che riesce a costruirsi un vero e proprio impero.
La figura di Kane era vagamente ispirata a quella del reale imprenditore William Randolph Hearst, che si adirò non poco all’uscita del film.
Nel 1942 il capolavoro di Welles ricevette 9 candidature ai Premi Oscar: miglior film, migliore attore protagonista (Welles), migliore regia, migliore sceneggiatura originale, migliore fotografia, migliore sonoro, migliore montaggio, migliore musica. Vinse solo una statuetta per la migliore sceneggiatura firmata da Welles e Herman J. Mankievicz. Il film fu un clamoroso insuccesso di pubblico e critica, ma Quarto potere resta ancora oggi uno dei migliori film nella storia del cinema.
Un’opera senza tempo, rivoluzionaria in ogni inquadratura, Quarto potere è un film di attualità sconcertante nel mettere a fuoco il potere dei media e l’inafferrabilità della complessità umana. Per mostrare la realtà immaginata di un magnate in ascesa e declino Welles mette in scena fittizi cinegiornali, punti di vista difformi e contraddittori, scene spiazzanti e mai viste prima. In Quarto potere troviamo un’inquadratura dall’alto di un giovane Kane in piedi a gambe larghe su cataste di suoi giornali. La scena indica potere, spavalderia, onnipotenza, nonostante l’angolazione della ripresa.
Alla fine, ecco l’insegnamento: l’essenza di un uomo resta e resterà inafferrabile. Possiamo coglierne aspetti, frammenti parziali; ma davanti alla sua morte nemmeno chi “lo conosceva bene” riesce a comprenderlo del tutto.

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FOTOGRAFIA DA LEGGERE …

Riprendiamo con la rubrica del lunedì, la “Fotografia da Leggere”; il giorno dopo però (chiediamo scusa). Oggi incontriamo un libro intimo, anche per chi legge. Si tratta di “Vita di Luigi Ghirri, Fotografia, Arte, Letteratura e Musica” firmato da Vanni Codeluppi (Carocci Editore).
Nel guardare le immagini del fotografo di Scandiano ci s’immerge nel silenzio visivo, non perché riguardino luoghi privi di rumori, ma per il fatto che creano uno spazio di silenzio dentro chi osserva, trasportando altrove i suoi pensieri abituali. La definizione è di Gigliola Foschi, autrice del libro “Le fotografie del silenzio”, peraltro riportata anche nel volumetto che abbiamo tra le mani. Nello sviluppo dei contenuti, l’autore tenta (riuscendovi) di offrire una spiegazione filosofica alle fotografie di Luigi Ghirri e anche al silenzio interiore che riescono a far scaturire.

Leggiamo nel prologo. Dieci fotografie di Luigi Ghirri. Non sono le più importanti, soltanto alcune tra le centomila scattate. Ognuna di queste, però è legata a un’importante componente della filosofia estetica del fotografo, così come a un decisivo capitolo della sua vita di essere umano. Un’esistenza che è stata breve e non avventurosa, ma sicuramente intensa.
[…]
Arrivato alla fine del suo esistere, Luigi si è accorto di aver messo insieme un immenso mosaico, che rappresentava magicamente il suo volto. Ha capito, cioè, che noi essere umani siamo interamente costituiti di quel mondo che ci circonda, ci entra dentro e ci dà vita. Come ha fatto Luigi, si tratta solo di lasciarlo passare, senza opporre alcuna resistenza.
Del resto, lui impara come i legami con gli altri siano importanti e per questo li curerà con un impegno assiduo. Non solo, da adulto conserverà grande affetto verso tutti i parenti e i luoghi che hanno caratterizzato la sua infanzia; ed è il passato a rappresentare uno dei temi rilevanti della sua poetica.
Questo e altro costituisce l’ossatura del lavoro di Codeluppi, il tutto argomentato dalle dieci fotografie che dicevamo, anch’esse da leggere (e comprendere). Perché negli scatti di Luigi sembra che la realtà si sia messa in scena per lui. Non è così: egli ne ha saputo cogliere una porzione che è già ordinata e messa in scena alla perfezione.

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DEBUTTA LUCIANO PAVAROTTI

29 aprile 1961. Luciano Pavarotti debutta nel ruolo di Rodolfo nell’opera La Bohème di Puccini, al Teatro municipale Romolo Valli di Reggio Emilia.
Nato il 12 ottobre 1935 a Modena, ha manifestato fin da subito una precoce vocazione al canto, anche se all’inizio si trattava di una passione coltivata in privato. Tra l’altro, da adolescente sarebbe voluto diventare insegnante di educazione fisica.
Nel 1961 Pavarotti vince il concorso internazionale "Achille Peri" che segna il suo vero esordio sulla scena canora.

Come dicevamo, il debutto arriva con la Bohème di Puccini. E’ il 29 aprile 1961, siamo a Reggio Emilia e il tenore ha ventisei anni. Nei due anni successivi, Pavarotti porta l’opera in diverse città italiane, mentre aggiunge Rigoletto al suo repertorio. Qui da noi è una giovane promessa, ma all’estero lo conoscono in pochi. La fortuna però è dalla sua parte. Viene chiamato a Londra assieme a Di Stefano, che però si ammala: Pavarotti lo sostituisce. E’ il 1963. Il nome del tenore italiano inizia a girare all’estero.

Stati Uniti e Londra saranno le tappe successive, con la Lucia di Lammermoor, “Traviata” e Sonnambula. Sarà però ancora Bohème a sancire un suo trionfo. Nel 1965 debutta alla Scala, diretto da Herbert von Karajan, che l’aveva richiesto espressamente.
Il prosieguo della carriera del tenore modenese è tutto sulla falsariga di questi strepitosi successi, tra incisioni, interpretazioni e applausi sui palchi di tutto il mondo e con i più famosi direttori d’orchestra. Pavarotti ha infatti un indiscutibile pregio: la sua voce è di rame e fraseggia come il teatro vorrebbe, il che lo rende idoneo a un repertorio vasto, tra le opere di Puccini, Donizzetti, Bellini e Verdi. Nel 1990, insieme a José Carreras e Placido Domingo, Pavarotti dà vita a "I Tre Tenori". Nel 1991 affascina più di 250 mila persone con un grande concerto a Hyde Park di Londra.
Da lì in poi Pavarotti ha poi intrapreso una carriera all'insegna della contaminazione dei generi. Con il "Pavarotti & Friends" Pavarotti invita artisti di fama mondiale del pop e del rock per raccogliere fondi a favore di organizzazioni umanitarie internazionali. L’evento si ripete ogni anno.

Abbiamo ascoltato Pavarotti più volte: con i dischi e anche per radio. Non siamo gente “da loggione”, ma con Tosca e Turandot abbiamo applaudito da soli. Il tenore modenese aveva vinto come Calaf alle prime luci dell’alba (Turandot).

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