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GLI OCCHIALI, RACCONTO …

pSi sentiva a suo agio in quella casa, forse per il fatto di conoscerla da sempre, più probabilmente perché sentiva che molti ne apprezzavano il calore e l’ospitalità. Lì erano cresciute le sue due figlie e pure un nipote; e poi, per molti quell’appartamento aveva rappresentato un riferimento importante: un luogo dove ritrovarsi, per comprendere; traendo consolazione da un tempo che sembrava rallentarsi, diventando più disponibile. Armida era felice di questo, consapevole di essere stata utile o, semplicemente, solo presente; oltremodo arricchita dalle tante vite che aveva potuto conoscere.
Non era comunque questo che l’avrebbe resa felice quella mattina, o almeno non solo. Di sicuro si sarebbe ritrovata in un mondo consolidato, fatto di gesti naturali e rumori consueti: tutti in suo soccorso. Era il suono a farle capire che aveva aperto del tutto la tenda del secchiaio, o un tonfo cupo a suggerirle la completa chiusura del frigorifero.
Sì, Armida ci vedeva poco; anzi, quasi per niente. Per capire se un fornello era acceso doveva avvicinare, con cautela, la mano alla fiamma. Tatto e udito erano tutto per lei uno modo “per vedere” inconsueto, però collaudato. Ma ormai ci aveva fatto l’abitudine; anzi, alle volte le pareva di scorgere realtà non percepite dai più: anche di fronte ai bagliori di un TV o alle ombre di una fotografia.
Quella mattina si era svegliata di buon’ora. La finestra lasciava entrare una luce biancastra e indistinta; mentre la stanza tutta emanava un odore fatto di legno e cose antiche. Seduta sul letto, coi piedi cercava le ciabatte, allineate meticolosamente la sera precedente. Dopo sarebbe stata la volta del bicchiere semivuoto, sul comodino: da trovare anch’esso con calma e cautela.
Armida poggiò un lato della mano sul marmo del piccolo mobile; quando ne riconobbe il freddo, allungò le dita fino a toccare “del vetro” con un’unghia. Il bicchiere si spostò appena, poggiandosi sul bordo basso di una fotografia. L’immagine si allargò in maniera innaturale, eppure lei ne intuì il ricordo: troppo lontano per venire dimenticato. L’avevano ritratta con la sorella al suo fianco, tanti anni prima. Qualcuno sul retro aveva scritto: Porretta Terme, estate 1935; ma lei poteva solo rammentarlo.

Armida non voleva andare. “Sei magra, e pallida”, dicevano; nonostante lei si sentisse bene. E poi, perché andare alle terme? Non era meglio il mare? Sulla spiaggia avrebbe potuto camminare, anche senza occhiali: ombre da una parte, chiarore dall’altra; con tanta sabbia a rinsaldare il passo a piedi nudi e senza ostacoli.
Ma ormai erano in treno, lei e la sorella Clara: l’una di fronte all’altra, sul lato del finestrino nello scomparto di prima classe. I loro genitori, pur di estrazione modesta, per le figlie volevano il meglio. “Domani viaggerete in prima, dovete vestirvi bene”, avevano detto; anticipando loro l’eleganza del vagone, il colore dei velluti, il senso vero del lusso: da vivere almeno una volta, come soddisfazione personale.
Ed eccole lì, le due sorelle: Clara intenta a leggere un librino, Armida a guardar fuori dal finestrino. Si volevano bene, entrambe; forse perché arrivavano a completarsi. Il tempo trascorso insieme non era mai buttato via, e tali sarebbero state le due settimane a Porretta. Gli scossoni del treno quasi risvegliarono i pensieri di Armida. Tutti si occupavano della sua situazione, con l’attenzione del caso; ma lei era costretta a pensare al domani, agli anni venturi. Cosa le avrebbe riservato la vita? Un marito? Dei figli? O solo l’alluminio di un letto d’ospedale? Oltretutto era bella, molto. Anche la gonna che indossava sul treno, tagliata di sghembo e dalla vita bassa, esaltava i suoi fianchi sottili; il seno, non prosperoso ma accennato, ammiccava dietro la camicetta bianca; il volto, tondeggiante e aggraziato, invitava lo sguardo; il piccolo cappello “cloche”, abbassato fino alle sopra ciglia, la rendeva ancor più civettuola, senza cadere nel volgare.
Clara lo diceva spesso: “Sei tanto più bella di me”; e lo faceva senza invidia, quasi a compensare quel difetto alla vista della sorella, ormai diventato l’incubo di tutta la famiglia. Per Armida i problemi erano più grandi, maggiormente complessi. Non era l’usuale a spaventarla, bensì tutto ciò che non poteva immaginare. Nell’aria spiravano venti di guerra, anche se i Grandi d’Europa, riuniti in Aprile a Stresa, avevano espresso la volontà di mantenere la pace. E poi c’era l’Impero, quella voglia d’Africa che i politici esprimevano con forza.

Faccetta nera,
Bell'abissina
Aspetta e spera
Che già l'ora si avvicina!
Quando saremo
insieme a te,
noi ti daremo
un'altra legge è un altro Re.

Le due sorelle scesero alla stazione di Porretta Terme, concitata come mai. Ovunque c’era gente ad andare e venire: ragazzi baldanzosi, donne, bambini, ferrovieri, mercanti. “Facchino, Facchino”, urlò Clara.
“Eccolo”, disse una voce tra la folla.
“Abbiamo queste due valige”, spiegò Clara.
“Le lasci a me”, suggerì l’uomo. Questi afferrò i due bagagli con facilità, li pose sul carrello e si diresse all’esterno: verso la piazza antistante la stazione.
“Attenzione, prego”, ripeteva continuamente il facchino; e, mentre procedeva, separava la gente in due ali, creando un sentiero entro il quale Clara e Armida potevano camminare con agio.
“Dove andate”, chiese dopo l’uomo.
“Alle Donzelle”, rispose Clara.
“Bel posto”, rispose lui. “Non è distante da qui, ma con questo caldo vi consiglio una macchina”. “Dove la possiamo trovare?”.
“Guardi, ne trova una lì sulla destra, sotto gli alberi”.
Le due sorelle, sempre sotto braccio, si diressero verso la “514” parcheggiata di traverso.
All’interno un ragazzo giovane leggeva un quotidiano.
“E’ libera?”, chiese Clara.
“Eccome”, rispose l’autista, scendendo lentamente dall’auto. “Lasciate a me le valige”, aggiunse e chiuse il giornale in due.
“Grazie”, risposero quasi insieme le sorelle.
“In Europa facciamo tremare il mondo, ma in Italia lo scudetto lo vince la Juventus, da cinque anni …”, disse lui.
“Come?”
“Niente, parlavo del Bologna. Mi piace il calcio”.
“Già”, mormorò Clara, “E’ un po’ la malattia di tutti. Siamo lontani da Le Donzelle?”
“No, assolutamente”, rispose l’autista. “Attraversiamo la piazza e siamo già arrivati”.

Il posto era bello. Clara lo riconobbe, Armida ebbe modo di intuirlo. L’Albergo e le terme si trovavano incastonati in una valletta stretta: l’uno da un lato, le altre dall’altro. In mezzo un grande cortile, con tavoli e sedie. Gli edifici avevano grandi vetrate e ovunque si respirava un’aria fresca di umido. C’era silenzio, e calma; con qualche bisbiglio dei clienti a interrompere lo sciabordio del fiumiciattolo, continuo e rigoglioso.
Clara e Armida si sistemarono in stanza. Erano felici, entrambe. Respiravano un’aria nuova, che restituiva loro vitalità ed energia. Nonostante il viaggio, decisero di uscire.

“Ti piace qui?”, chiese Clara alla sorella.
“Eccome”, rispose lei.
“Meglio del mare, no?”
“Non lo so, forse no”, affermò Armida. Poi, per paura di aver deluso la sorella, disse: “Sento che mi porterò a casa qualcosa di buono da questi luoghi”.
“Bene”, osservò Clara; non convinta del tutto, però. La sorella parlava spesso al futuro, quasi che il presente non fosse di suo interesse. Continuò a pettinarsi. Armida era già pronta sulla porta.

Camminarono molto, fin quasi alla stazione. Clara raccontava tutto: i negozi, la gente, i ragazzi; Armida ascoltava, completando le parole della sorella con odori e rumori. Aveva imparato a riconoscere la “514” del taxi ed anche il profumo delle panetterie, i cosmetici delle signore e il sudore acre di chi lavora.
“Bella la gente qui”, disse Armida.
“E’ bello l’autista”, rispose Clara.
“Ti piace?”.
“Non saprei, è troppo legato al calcio”.
“Gli uomini giocano sempre, lo dice anche la mamma; poi, quando s’innamorano, non vedono altro”.
“Chissà quanti cuori spezzerai, Armida; bella come sei”.
“Può darsi”, rispose la sorella senza modestia. “Purtroppo non so se riuscirò a riconoscerlo, a vederlo”.
“Cosa?”
“L’amore, Clara. L’amore”.

Le due sorelle si sedettero a un tavolino del Bar Roma. Consumarono un’aranciata fresca, entrambe. Sembravano due amiche, ed erano giovani, diverse, pronte alla vita: quella che si afferra con forza, come solo le donne sanno.
A un certo punto, un rumore nuovo, assordante. Armida tese lo sguardo, confusa. Un ultimo scoppio la fece quasi sobbalzare; poi fu silenzio e il rumore di passi. Un’ombra grande le passò di fianco, con dietro l’odore di cuoio e brillantina.

I giorni passavano. Clara e Armida gioirono del loro tempo assieme. Erano ancora più belle, per via del colorito vacanziero. Il tempo lì aveva restituito loro nuove conoscenze ed anche quella consapevolezza di chi si trova bene, a proprio agio. Poi c’erano le serate con la musica, nel grande cortile di fronte alle terme. Lì la gente ballava, anche se le due sorelle rifiutavano sempre gli inviti, con garbo.
Una sera, quand’era già buio, ancora quel rumore assordante. “E’ una motocicletta”, spiegò Clara, ma la sorella lo aveva già capito. Armida volse lo sguardo in giro: nessun odore; eppure il rombo era il medesimo. La musica incalzava.

Non dimenticar le mie parole,
bimba tu non sai cos'è l'amor,
è una cosa bella come il sole,
più del sole dà calor.

“Balla?”
Armida si spaventò. Si volse e lo riconobbe. Era l’odore di cuoio e brillantina.
“Non posso”, rispose.
“Perché? Anch’io porto gli occhiali”, disse lui.
“Sì, ma lei guida la motocicletta …”
“Va bene, e allora?”
“Io non potrei, andrei a sbattere”
“Ma come? Ci sono io a guidarla”
“Con la motocicletta, intendo”.
“Ah, ecco. Beh, possiamo sempre ballare. Non rischiamo di farci male”.
“Non so neanche come si fa …”.
“Ho capito …”
“No, non se ne vada …”, disse Armida.
“Non me ne stavo andando; volevo solo prendere una sedia”.
L’odore di cuoio era più intenso e l’ombra di lui imponente. Dell’uomo riusciva anche a intuirne i lineamenti: aggraziati, ma volitivi.
“Come si chiama, signorina”, azzardò lui.
“Armida”
“Io Libero, ma non so se lo sono”.

Armida allungò le mani verso il volto di lui, che non capì. Mosse i polpastrelli con cautela, poi ..
“Li porta veramente …”
“Cosa?”, chiese lui
“Gli occhiali”, rispose lei.
Lui le baciò i polsi, uno alla volta. Lei lo lasciò fare. Libero le carezzò il volto, poi provò a sfilarle gli occhiali.
“No, mi baci con gli occhiali, se vuole; sappia che io non l’ho mai fatto”.

Furono baci, tanti; ed anche promesse. E poi sorrisi, parole, complimenti e carezze: ma anche molto di più. Armida mise a posto la fotografia sul comodino e afferrò il bicchiere. Per strada un rombo assordante, e lei ricordò la brillantina, con anche il cuoio. Si alzò in piedi, e in ciabatte si diresse verso la cucina: dove l’attendevano altri odori e rumori consueti. A novant’anni era ancora autonoma, ma presto sarebbe toccato a lei: quella fotografia la stava aspettando.

Nota dell’autore

Chi scrive ha conosciuto Armida e Clara, che ovviamente non si chiamavano così. Le vicende sono inventate, come anche l’ambientazione musicale: “Non dimenticar le mie parole”, di Bracchi e Danzi, è del ’37 e non dell’anno in cui si svolge il racconto. Clara ha avuto due figlie, Armida lo stesso. Con Libero? Non vogliamo dirlo, né possiamo farlo.
Resta il ricordo delle due sorelle, al quale chi scrive non rinuncerebbe mai. Da loro ha imparato l’affetto e il valore del cuore.

Le fotografie

“Aspettando il treno”, 2009. Anonimo

“L’ombrello”. 2009, Ph. Gianni Berengo Gardin, Contrasto

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