LA RETORICA DI ROCKY E RAMBO
Sylvester Stallone (nato il 6 luglio 1946) ha sempre recitato con i suoi muscoli, quelli buoni, definiti, non violenti. Nei film, difficilmente lo abbiamo visto sorridere, perché lui si trovava sempre in difficoltà: come pugile e soldato, nel morale, nelle circostanze e nella visione delle cose.
Inutile negarlo, Rocky e Rambo, per via dei tanti sequel, hanno occupato le nostre vite, con successo; al di là delle tante critiche di circostanza. I due personaggi sono onesti, schietti, semplici, facili da riconoscere. Ecco quindi che il salotto di casa, per una sera, può ospitare le vicende di Rambo, il soldato che avrebbe voglia di vincere: in guerra e nella vita. La sua esistenza però è difficile, perché ex combattente, mal voluto in patria. I suoi dialoghi sono espliciti: «Io amo il mio paese, morirei per lui. Vorrei che ci amasse come noi l’amiamo».
Combatterà anche in patria, il nostro reduce, braccato dall’esercito. Gli verrà in soccorso il suo comandante, il colonnello Trautman, che però metterà in guardia gli altri: «Quello che voi chiamate inferno, lui lo chiama casa».
Chi è a capo dei braccanti esprime delle perplessità circa la sopravvivenza di Rambo: «E vorrebbe dirmi che 200 uomini contro il suo Marine sono nella posizione di non poter vincere?». «Se ci manda tanti uomini», risponde Trautman «Non dimentichi una cosa», «Che cosa?», chiede l’altro. «Una buona scorta di barelle».
Del resto, che dire? «Dio perdona, io no», urla Rambo in un film. E poi, è in grado di curarsi le ferite da solo con dei punti di sutura. Il clima è surreale, ingenuo, quasi incedibile; ma forse piace per questo, perché il fiato non rimane sospeso, in attesa di un finale retorico, scontato, comunque lieto. Questa è la forza di Rambo.
A rivedere oggi i suoi film emerge qualche crepa. Manca il Vietnam, il suo ricordo; con i reduci ormai invecchiati e non più credibili. Sarebbe necessario un preambolo, ma a che pro?