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NASCE VITTORIO ALINARI

Vittorio Alinari nasce a Firenze il 4 luglio 1859. Prima di parlare di lui e della storia della sua famiglia, occorre soffermarsi su due notizie importanti.

Il 4 luglio 1776 il Congresso continentale, ossia l’assemblea dei 56 delegati provenienti dalle 13 colonie britanniche in terra d’America (New Hampshire, Massachusetts, Rhode Island, Connecticut, New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware, Maryland, Virginia, Carolina del Nord, Carolina del Sud e Georgia) adottò la Dichiarazione di Indipendenza, eliminando ogni vincolo di dipendenza politica dalla Gran Bretagna. Nascono gli USA. Gli inglesi riconobbero l’autonomia statunitense nel 1783 e nel 1787 la Convenzione di Filadelfia adottò l’attuale Costituzione degli Stati Uniti.
Una curiosità: a Filadelfia la squadra di basket (milita nella NBA) porta il nome Philadelphia 76ers a memoria del 4 luglio 1776.

Il 4 luglio è una data importante anche qui da noi, soprattutto per gli appassionati di fotografia: nasce Ferdinando Scianna. Lui si avvicina alla fotografia negli anni sessanta, raccontando con le immagini la cultura e le tradizioni della sua regione d’origine, la Sicilia. Col tempo, arriveranno l’attualità, la guerra, la notizia, la gente, la moda; ecco quindi Bagheria e le Ande Boliviane, con quel lungo sentiero dal quale ha saputo raccontare, sempre, con lucidità e rigore. Fanno da contrappunto, nel suo corpus fotografico, i ritratti dei suoi amici, maestri d’arte e di cultura: Leonardo Sciascia, Henri Cartier-Bresson, Jorge Louis Borges e tanti altri.
Di Scianna ammiriamo anche gli scritti, i tanti libri di saggistica dedicati alla fotografia e al suo mondo. Del suo parlare con la penna ci piace l’idea, lo stile, la cultura, le riflessioni indotte. Come con le immagini, Lui ci accompagna fino all’ultimo chilometro, per poi lasciarci da soli sul sentiero della comprensione.
Grazie Ferdinando, auguri.

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RITORNO AL FUTURO

3 luglio 1985. Esce nelle sale cinematografiche statunitensi il film Ritorno al Futuro.

Ritorno al futuro (Back to the Future) è un film diretto da Robert Zemeckis e interpretato da Michael J. Fox e Christopher Lloyd. Primo episodio della trilogia omonima, è considerato un’icona del cinema degli anni ottanta e ha riscosso un enorme successo a livello internazionale. La pellicola ha ricevuto il premio Oscar al miglior montaggio sonoro (forse un po’ poco). Nel 2007 è stato scelto per essere conservato nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.

Nella colonna sonora spicca un brano di Huey Lewis and the News: “The Power of Love”, presente più volte all'inizio della pellicola. Durante il film, il cantante Huey Lewis appare in un fugace cameo, nel ruolo del professore che sceglie i gruppi che suoneranno alla festa della scuola. Ironicamente, il professore boccia l'audizione di Marty, che gli propone proprio una sua versione di “The Power of Love”. «Mi dispiace ragazzi, siete troppo rumorosi», dice Huey. Nel film c’è anche un cameo musicale di Eddie Van Halen, il chitarrista dei Van Halen: l’assolo di chitarra con cui Marty spaventa suo padre durante la notte (negli anni ’50) è del musicista, che l’ha realizzato appositamente per il film.

Come in ogni film americano che si rispetti (peraltro con lo zampino di Steven Spielberg nella produzione), tutto funziona: sceneggiatura, fotografia; ma anche scelta degli attori, dialoghi, camei, musica, ironia precisa e ben motivata. Il viaggio temporale c’è, importante peraltro. Marty andrà a incontrare i genitori, giovanissimi ma già delineati, nel carattere, per come li ha conosciuti nella vita reale. Riuscirà anche a modificarne il destino, per un finale lieto, già volto al futuro.

C’è l’America degli anni ’50, nel film: quella di Happy Days, per intenderci; o anche quella delle periferie lussuose (le suburbia, come nel progetto fotografico di Bill Owens, uno dei più grandi autori negli USA del dopoguerra). E quegli anni “americani” piacciono, ancora oggi; perché forse da noi non li abbiamo mai visti, impegnati com’eravamo nell’alimentare il boom economico, mentre ci raccontavamo con il neorealismo.
C’è tanto dell’altro, nel film; e lo si scova lentamente. Marty, alla festa della scuola dei suoi genitori (giovani) suona Johnny B. Goode, di Chuck Berry. Il sound è nuovo, per i tempi; e un membro del complesso telefona a suo cugino per parlargli della novità, chiamandolo appunto Chuck. Non solo, la scritta CRM114 che si vede su un amplificatore per chitarra (a inizio film), è un omaggio al film di Stanley Kubrick “Il Dottor Stranamore”, che aveva una radio con lo stesso nome ed era uno dei film preferiti di Robert Zemeckis.

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PRESENTATA LA FIAT 500

2 luglio 1957. Torino: al circolo Sporting viene presentata ufficialmente la Fiat 500.

La nuova 500 (così si chiamava) costava 490.000 lire, tredici stipendi di un operaio, dieci di un impiegato. L’Italia continuava a motorizzarsi, affiancando un modello economico alla già conveniente 600, presentata a Ginevra il 9 marzo 1955.
Nei primi anni di vita, la Fiat 500 compare un po’ ovunque nel cinema italiano (ma anche francese), tanto che nel 1962 finisce al fianco di Franco e Ciccio ne “I Motorizzati”; diventa l’oggetto del desiderio anche per Alberto Sordi ne “Il Boom” diretto da Vittorio De Sica, uscito nel 1963 e la ritroviamo nella pellicola “Io la conoscevo bene” del 1965 con Stefania Sandrelli. Siamo in pieno boom, il PIL cresce a due cifre; ma alla 500 non possiamo attribuire un ruolo unicamente simbolico e nemmeno nostalgico. La piccola auto circola ancora, al di là dei raduni degli appassionati. Si calcola che in Italia ogni giorno ne vadano in moto quattrocentomila, anche solo per fare la spesa o comprare le sigarette. La sua affidabilità ne ha determinato la longevità, anche perché le complicazioni erano veramente poche: due cilindri, raffreddamento ad aria, spinterogeno, dinamo e non tanto di più.

Molti di noi, tra gli attempati, l’anno avuta, anche perché era l’auto per iniziare, spesso ereditata da un parente. Di certo tutti ci siamo saliti su, almeno quelli di una certa età: un amico che la possedesse esisteva sempre.
E’ bello ripensare al riscaldamento (la leva per comandarlo era sotto il sedile posteriore) o alla piccola capote, oppure a quella “doppietta” che occorreva fare perché il cambio non grattasse, quando si andava in scalata. Chiudendo gli occhi, si può anche immaginare di tornare alla guida della piccola utilitaria. Basterebbe girare la chiave sul cruscotto e tirare una delle due leve poste tra i sedili (quella di destra, l’altra era lo starter). L’auto oscillerebbe per un istante, mettendosi poi a cantare con un sonoro inconfondibile, ritmico.
Tempi belli, che è giusto non rimpiangere. Oggi c’è di meglio, ma un giretto sul “cinquino” lo faremmo volentieri. Tecnologia a parte, i vent’anni sarebbero più vicini del ricordo. Saremmo ancora in grado di salirci sopra? E poi di scendere? Chissà!

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MILANO, LA STAZIONE CENTRALE

Il 1° luglio è una data importante per i nostri treni: nel 1905 nascono le Ferrovie dello Stato, nel 1931 viene inaugurata la Stazione Centrale di Milano, della quale abbiamo parlato quattro anni addietro.

Per noi appassionati (di fotografie e treni), la Stazione Centrale di Milano conserva una sua fotogenia. E’ l’atmosfera a farla da padrona, quella che scende dalle arcate. Del resto, laddove si fermano i treni vivono storie, che sarebbe bello poter raccontare.
Il mondo ferroviario è quasi una religione, praticata da migliaia di persone in Italia e in Europa (Gianni Berengo Gardin compreso). Persone che, come faceva Proust, sfogliano l’orario ferroviario come un catalogo dei desideri (da Trenomania, di Jaroslav Rudies).
Nessuno sale su un treno per caso: c’è sempre una storia da affrontare, un’esigenza intima. Per noi appassionati sono importanti anche i binari, lucidi e ferrosi. Loro guardano lontano, dietro la curva, e rappresentano un’opportunità: quella di un finestrino che è già un’inquadratura fotografica.

Sveliamo subito un mistero circa la stazione milanese: quella che vediamo oggi in realtà è la "seconda" Centrale del capoluogo lombardo. La prima era stata costruita nel 1864, dove oggi troviamo Piazza della Repubblica, in fondo a via Vittor Pisani, l’ampio viale che parte appunto dall’attuale Stazione Centrale. In Piazza della Repubblica non esiste più alcuna traccia della vecchia costruzione.
La seconda Stazione Centrale divenne operativa il 30 giugno 1931, dopo una lunga storia. La prima pietra venne posata dal re Vittorio Emanuele III nel 1906, senza che vi fosse un progetto. Della costruzione se ne occupò l'architetto Ulisse Stacchini (dal 1912), che prese ispirazione dalla Stazione di Washington. I lavori procedettero a rilento. Il 1° luglio 1931 avvenne finalmente l'inaugurazione ufficiale. Da allora la stazione ha conservato le sembianze che notiamo ancora oggi.

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