2 luglio 1957. Torino: al circolo Sporting viene presentata ufficialmente la Fiat 500.
La nuova 500 (così si chiamava) costava 490.000 lire, tredici stipendi di un operaio, dieci di un impiegato. L’Italia continuava a motorizzarsi, affiancando un modello economico alla già conveniente 600, presentata a Ginevra il 9 marzo 1955.
Nei primi anni di vita, la Fiat 500 compare un po’ ovunque nel cinema italiano (ma anche francese), tanto che nel 1962 finisce al fianco di Franco e Ciccio ne “I Motorizzati”; diventa l’oggetto del desiderio anche per Alberto Sordi ne “Il Boom” diretto da Vittorio De Sica, uscito nel 1963 e la ritroviamo nella pellicola “Io la conoscevo bene” del 1965 con Stefania Sandrelli.
Siamo in pieno boom, il PIL cresce a due cifre; ma alla 500 non possiamo attribuire un ruolo unicamente simbolico e nemmeno nostalgico. La piccola auto circola ancora, al di là dei raduni degli appassionati. Si calcola che in Italia ogni giorno ne vadano in moto quattrocentomila, anche solo per fare la spesa o comprare le sigarette. La sua affidabilità ne ha determinato la longevità, anche perché le complicazioni erano veramente poche: due cilindri, raffreddamento ad aria, spinterogeno, dinamo e non tanto di più.
Molti di noi, tra gli attempati, l’anno avuta, anche perché era l’auto per iniziare, spesso ereditata da un parente. Di certo tutti ci siamo saliti su, almeno quelli di una certa età: un amico che la possedesse esisteva sempre.
E’ bello ripensare al riscaldamento (la leva per comandarlo era sotto il sedile posteriore) o alla piccola capote, oppure a quella “doppietta” che occorreva fare perché il cambio non grattasse, quando si andava in scalata. Chiudendo gli occhi, si può anche immaginare di tornare alla guida della piccola utilitaria. Basterebbe girare la chiave sul cruscotto e tirare una delle due leve poste tra i sedili (quella di destra, l’altra era lo starter). L’auto oscillerebbe per un istante, mettendosi poi a cantare con un sonoro inconfondibile, ritmico.
Tempi belli, che è giusto non rimpiangere. Oggi c’è di meglio, ma un giretto sul “cinquino” lo faremmo volentieri. Tecnologia a parte, i vent’anni sarebbero più vicini del ricordo. Saremmo ancora in grado di salirci sopra? E poi di scendere? Chissà!
Il 1° luglio è una data importante per i nostri treni: nel 1905 nascono le Ferrovie dello Stato, nel 1931 viene inaugurata la Stazione Centrale di Milano, della quale abbiamo parlato quattro anni addietro.
Per noi appassionati (di fotografie e treni), la Stazione Centrale di Milano conserva una sua fotogenia. E’ l’atmosfera a farla da padrona, quella che scende dalle arcate. Del resto, laddove si fermano i treni vivono storie, che sarebbe bello poter raccontare.
Il mondo ferroviario è quasi una religione, praticata da migliaia di persone in Italia e in Europa (Gianni Berengo Gardin compreso). Persone che, come faceva Proust, sfogliano l’orario ferroviario come un catalogo dei desideri (da Trenomania, di Jaroslav Rudies).
Nessuno sale su un treno per caso: c’è sempre una storia da affrontare, un’esigenza intima. Per noi appassionati sono importanti anche i binari, lucidi e ferrosi. Loro guardano lontano, dietro la curva, e rappresentano un’opportunità: quella di un finestrino che è già un’inquadratura fotografica.
Sveliamo subito un mistero circa la stazione milanese: quella che vediamo oggi in realtà è la "seconda" Centrale del capoluogo lombardo. La prima era stata costruita nel 1864, dove oggi troviamo Piazza della Repubblica, in fondo a via Vittor Pisani, l’ampio viale che parte appunto dall’attuale Stazione Centrale. In Piazza della Repubblica non esiste più alcuna traccia della vecchia costruzione.
La seconda Stazione Centrale divenne operativa il 30 giugno 1931, dopo una lunga storia. La prima pietra venne posata dal re Vittorio Emanuele III nel 1906, senza che vi fosse un progetto. Della costruzione se ne occupò l'architetto Ulisse Stacchini (dal 1912), che prese ispirazione dalla Stazione di Washington. I lavori procedettero a rilento. Il 1° luglio 1931 avvenne finalmente l'inaugurazione ufficiale. Da allora la stazione ha conservato le sembianze che notiamo ancora oggi.
Il 1° luglio è una data importante per i nostri treni: nel 1905 nascono le Ferrovie dello Stato, nel 1931 viene inaugurata la Stazione Centrale di Milano, della quale abbiamo parlato quattro anni addietro.
Per noi appassionati (di fotografie e treni), la Stazione Centrale di Milano conserva una sua fotogenia. E’ l’atmosfera a farla da padrona, quella che scende dalle arcate. Del resto, laddove si fermano i treni vivono storie, che sarebbe bello poter raccontare.
Il mondo ferroviario è quasi una religione, praticata da migliaia di persone in Italia e in Europa (Gianni Berengo Gardin compreso). Persone che, come faceva Proust, sfogliano l’orario ferroviario come un catalogo dei desideri (da Trenomania, di Jaroslav Rudies).
Nessuno sale su un treno per caso: c’è sempre una storia da affrontare, un’esigenza intima. Per noi appassionati sono importanti anche i binari, lucidi e ferrosi. Loro guardano lontano, dietro la curva, e rappresentano un’opportunità: quella di un finestrino che è già un’inquadratura fotografica.
Sveliamo subito un mistero circa la stazione milanese: quella che vediamo oggi in realtà è la "seconda" Centrale del capoluogo lombardo. La prima era stata costruita nel 1864, dove oggi troviamo Piazza della Repubblica, in fondo a via Vittor Pisani, l’ampio viale che parte appunto dall’attuale Stazione Centrale. In Piazza della Repubblica non esiste più alcuna traccia della vecchia costruzione.
La seconda Stazione Centrale divenne operativa il 30 giugno 1931, dopo una lunga storia. La prima pietra venne posata dal re Vittorio Emanuele III nel 1906, senza che vi fosse un progetto. Della costruzione se ne occupò l'architetto Ulisse Stacchini (dal 1912), che prese ispirazione dalla Stazione di Washington. I lavori procedettero a rilento. Il 1° luglio 1931 avvenne finalmente l'inaugurazione ufficiale. Da allora la stazione ha conservato le sembianze che notiamo ancora oggi.
Gianni Berengo Gardin, riflessioni
Gianni Berengo Gardin nasce il 10 ottobre 1930. Scrivere di lui è un po’ come incontrarlo, perché personalmente lo conosciamo bene, avendolo frequentato a lungo. Tante volte ci ha ospitato a casa sua (grazie), regalandoci emozioni che sono le stesse di adesso, di fronte a questo schermo che non vuole riempirsi.
Narrare con la fotografia, per Berengo, è una questione di vita: forse la missione di un’esistenza. Siamo convinti che il suo pensiero sia sempre lì, nelle storie raccontabili: attorno a quell’uomo comune col quale è possibile costruire anche una “realtà immaginata”. Gli Zingari, i manicomi, la Luzzara di Zavattini (e Paul Strand!), hanno rappresentato solo delle opportunità per un motore già in moto, per una “penna” già avvezza alla scrittura.
Ha sempre desiderato fare libri, il maestro, più di ogni altra cosa. Il racconto è lì, nella costruzione della pubblicazione: narrando una situazione con tutto il tempo necessario.
Comunque è stato fotoamatore per cinque anni. Poi, la passione forte l’ha convinto a diventare professionista. I suoi ideali sono stati i fotografi americani della “Farm Security Administration” (soprattutto Eugene Smith), poi, subito dopo, i francesi. Parigi esercitò un grosso fascino su di lui ed è rimasto là quasi due anni. E’ stato un periodo di grandi incontri: Doisneau, Boubat, Masclet, Willy Ronis, col quale ha stretto una solida amicizia. Da loro ha imparato moltissimo e da lì è partito tutto.
E’ un mondo in B/N quello che ci racconta Berengo, forse (lui ci disse) per una questione di educazione visiva, partita dal cinema e dalla televisione in bianco e nero, continuata poi con i grandi maestri che l’hanno ispirato.
Tutto ciò ci fa riflettere e subito ci vengono in mente i tanti scatti del Maestro diventati icona. In questi non si riconosce unicamente un formalismo di sintassi, ma lo sviluppo di un racconto che prende forma. Non solo, nei suoi libri famosi quasi si nota una generosità di scatti. E’ come se il nostro desiderasse arrivare al soggetto per assonanze successive, con rispetto. La somiglianza col montaggio filmico diviene quasi scontata, anche se a prevalere c’è il desiderio di verità, di narrare a fondo: con rigore.
La gente comune che Berengo ama ritrarre viene descritta nel proprio contesto, come nella scena di un grande teatro. Ci sono le quinte e le comparse, i soggetti principali e gli elementi descrittivi, spesso chi compie un’azione e un altro che guarda, un elemento “centrale” e tanto altro che parla di esso.
Il nostro incontro di fantasia è finito. Dopo aver immaginato le fotografie di Berengo comprendiamo ancora di più di essere cittadini del mondo. E’ il suo racconto ad accomunarci tutti, perché ognuno di noi può ritrovarsi nei suoi scatti: magari nel proprio tempo e nel luogo che gli appartiene. Complice è la fotografia del maestro, vicina, nel suo fruire, al divenire stesso della vita.
Gianni Berengo Gardin, la vita
Gianni Berengo Gardin nasce a Santa Margherita Ligure nel 1930 e inizia a occuparsi di fotografia dal 1954.
Trascorre l’infanzia in Liguria, poi si trasferisce a Roma. Dopo un lungo periodo a Venezia, mette le radici a Milano, dove comincia la sua professione di fotografo. Collabora con numerose riviste tra cui Il Mondo di Mario Pannunzio e le maggiori testate giornalistiche italiane e straniere, come Epoca e Time. Si dedica in special modo alla realizzazione di libri fotografici: pubblica oltre 250 volumi, dai quali emerge soprattutto il suo interesse per l’indagine sociale. Dal 1966 al 1983, in collaborazione con il Touring Club, pubblica una serie di volumi dedicati all’Italia e ai Paesi europei.
Lavora assiduamente con grandi industrie, tra cui l’Olivetti, per reportage e monografie aziendali. Nel 1979 inizia la collaborazione con Renzo Piano, per il quale documenta le fasi di realizzazione dei progetti architettonici.
Nella sua carriera ha esposto in oltre trecento mostre personali, in Italia e all’estero, tra cui le grandi antologiche di Arles (1987), Milano (1990), Losanna (1991), Parigi (1990),New York e alla Leica Gallery (1999); tra le ultime, alla Städtische Galerie di Iserlohn nel 2000, al Museo Civico di Padova e al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 2001, alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi, alla Fondazione Forma per la Fotografia nel 2005, alla Casa dei Tre Oci di Venezia nel 2012 e a Palazzo Reale a Milano nel 2013.
Nel 1972 la rivista Modern Photography lo inserisce nella lista dei 32 maggiori fotografi al mondo. Nel 2003 è presente tra gli ottanta fotografi scelti da Cartier-Bresson per la mostra “Les choix d’Henri Cartier-Bresson”.
Nel 2013 la Leica Wetzlar lo invita a esporre nella mostra “Eyes Wide Open! One Hundred Years of Leica Photography”.
Nel 2014 e nel 2015, con il Fondo Ambiente Italiano, ha esposto a Milano (Villa Necchi) e a Venezia (Negozio Olivetti) le sue immagini sulle grandi navi a Venezia.
Oltre ai numerosi premi, nel 2008, quale riconoscimento alla carriera, gli viene assegnato il Lucie Award e nel 2009 la laurea honoris causa in Storia e Critica dell’Arte presso l’Università Statale di Milano. Nel 2012 la città di Milano gli assegna l’Ambrogino d’Oro.
Nel 2015, a Roma, gli viene conferito il titolo di Architetto Onorario dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori.
Le fotografie
Gianni Berengo Gardin, emigranti. 1977.
Gianni Berengo Gardin, in Stazione Centrale
30 giugno 1953. La General Motors produce la prima Chevrolet Corvette C1, l'auto sportiva americana più famosa. La GM, gruppo al quale apparteneva il marchio Chevrolet, scopre la necessità di realizzare una vettura sportiva a due posti, diventata poi iconica.
La Corvette C1 ci permette di andare al cinema, per vedere “Cars, motori ruggenti”, un cartone animato dove i personaggi sono delle auto riconoscibili, divertente per questo.
Saetta McQueen (un ibrido tra una Corvette C6 e una C1) è l’esordiente più promettente di tutta la storia della Piston Cup. È bello, forte, veloce e arrogante, dalla vita ha tutto quello che vuole ma, durante il trasferimento verso il circuito dove disputerà la grande finale, si trova accidentalmente bloccato a Radiator Springs, un piccolo paesino di provincia. Lì riuscirà a trovare la vera felicità, l'amore (per una Porsche 911) e forse delle motivazioni diverse per vincere il campionato.
Cars, il film, punta tutto sull’universo delle macchine, poggiando su una trama molto prevedibile. Rimane comunque innegabilmente molto bello il modo in cui vengono antropomorfizzate le automobili, un utilizzo "emozionale" della computer graphic.
La versione italiana può vantare importanti doppiatori non di professione, come il comico Marco Messeri, l'attrice Sabrina Ferilli e diversi personaggi legati al mondo dei motori: i piloti Alex Zanardi, Jarno Trulli, Giancarlo Fisichella ed Emanuele Pirro, il comico Marco Della Noce (noto per il personaggio del meccanico ferrarista Oriano Ferrari), i telecronisti RAI della Formula 1 Gianfranco Mazzoni e Ivan Capelli ed il cronista motociclistico Giovanni Di Pillo.
In tutte le versioni la Ferrari F430 che compare verso la fine del film è stata doppiata da Michael Schumacher.
Luigi: una Fiat 500 gialla, è il gommista di Radiator Springs, proprietario della Casa della gomma (Casa Della Tires), che gestisce insieme a Guido. Amichevole e generoso, Luigi è un grande appassionato di corse automobilistiche, anche se segue esclusivamente le Ferrari. La sua targa è 445-108, numeri che corrispondono alla latitudine e alla longitudine della posizione dello stabilimento Ferrari a Maranello. Nella versione italiana è doppiato da Marco Della Noce con un accento emiliano.
Sontuosa è la colonna sonora. Durante il film si possono ascoltare: Route 66, di Chuck Berry; Life Is A Highway, di Rascal Flatts; Behind The Clouds, di Brad Paisley; e soprattutto Our Town di James Taylor.