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Roberto Rocchi

tratto da: ImageMag anno VIII #1
Raccontare la bellezza è piacevole; anche responsabilmente importante e impegnativo. Ho sempre cercato di farlo bene, raccontando il soggetto e aggiungendo qualcosa di mio
Roberto Rocchi
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

Conosciamo Roberto Rocchi da molti anni e lo chiamiamo spesso, anche solo per scambiare due parole. Di lui ci piace il garbo, l’educazione innata, l’estetica che è già nella parola; e poi, un minuto non lo nega mai, anche se sta lavorando. Il tempo: da qui ci piacerebbe iniziare per parlare delle sue fotografie. Quello che ci offre, con i suoi scatti, sono frammenti di esistenza, forse solo d’idee o pensieri; piccoli “corti” da usare per salire su una “vita parallela”: vera, finta, auspicabile, comunque percorribile.

Non siamo soli, dove ci accompagna Roberto; comunque troveremo un incontro, un’altra persona. Anche lì non sappiamo quale potrà essere il nostro destino, perché a un certo punto molto (o tutto) dipende da noi: da chi guarda. Non è poco quanto detto, perché ci muoviamo in un ambito dove la complicità domina sovrana. Si tratta però di un gioco a più mani: tra autore, soggetto e guardante; un’energia che si amplifica, sempre; solo per questioni di coerenza. Il merito di Roberto? Enorme. Riesce a mettere in fase emozioni e aspettative, perché le ha già percorse. I suoi scatti potrebbero fungere da incipit di romanzi, perché da lì parte tutto: forse il meglio. Già, perché quella “vita parallela” non è un treno fermo, ma un convoglio in corsa; e per salirci non bisogna pensare, bensì agire; prontamente poi. C’è dell’altro? Certamente. Tanta complessità merita un “terreno di coltura” abilitante; ecco quindi l’estetica, la cura del dettaglio, la composizione equilibrata, l’uso attento delle luci. Nei sogni, anche in quelli a occhi aperti, il disordine non esiste; compare semmai solo quello che serve. Del resto, “l’incontro possibile” non prevede il superfluo e nemmeno la ridondanza, ma insegue una storia. Desiderata, peraltro.

Roberto, quando hai iniziato a fotografare? E perché?

Ho iniziato per caso, forse come tanti. Era il ’67. Avevo in mano un diploma in ragioneria, con l’intenzione di proseguire gli studi presso la Facoltà di Economia e Commercio. La mia passione, però, era la pittura; e disegnavo anche molto bene. Ho trovato lavoro presso uno studio di pubblicità, mentre aspettavo di partire per il servizio militare. Tra le mie mansioni vi era anche quella di andare a consegnare le bozze e i provini ai fotografi. Fu uno di questi a chiamarmi presso il suo studio (Pierluigi Praturlon), con una proposta di lavoro: mi aveva preso in simpatia. Lui operava nell’ambiente del cinema ed era anche riconosciuto; aveva avuto un ruolo nella Dolce Vita e lo chiamavano “Il Capo”. Fino a allora non avevo mai tenuto una fotocamera in mano, ma l’ambiente mi piaceva: soprattutto quelle grandi foto che aveva alle pareti. “Mannaggia”, dissi, “Mi piacerebbe lavorare qui, ma mi aspetta la naja”. “Ti mando mio fratello”, aggiunsi.

Insomma, sei partito per il servizio militare e hai trovato lavoro a tuo fratello...

Esatto. Il mio rapporto con la fotografia è iniziato lì, se pure con mio fratello; anche perché tempo dopo mi ha ricambiato la cortesia: un laboratorio lo cercava e lui ha mandato me. Ho lavorato alcune settimane per un fotografo, poi ho declinato. Tempo dopo mi ha contattato ancora, perché cercavano un assistente. Era la Balsamo Editore: lì iniziava realmente la mia carriera.

Provavi passione per la fotografia?

Onestamente no, ma era tanto vicina alla mia pittura: entrambe avrebbero permesso di esprimermi. “Dipingevo con la luce”, potrei dirti; ma l’affermazione, agli occhi di oggi, appare più come una battuta.

È straordinaria la semplicità con la quale tu e tuo fratello trovavate lavoro...

Io fui assunto subito da Balsamo Editore: allora succedeva. Ho anche dei bei ricordi, perché sono rimasto lì per undici anni, cui sono seguiti i cinque di Rizzoli. Un bel giorno però Rizzoli... Lo sappiamo, chiude; ma io ho continuato a portare avanti la mia fotografia: quella fatta di celebrità e glamour (termine che non amo, anche se esplicito), particolarmente in Francia e Germania.

C'è stato un momento nel quale ti sei detto: “Ce l’ho fatta”?

C’è stato sicuramente, anche se l’ho vissuto non percependolo a fondo. Dopo qualche mese con Playboy, mi affidavano le cose importanti; il che era un bel segnale. Credo di aver trascorso alcuni anni significativi, anche se non sono mai stato un carrierista. Col senno di poi, avrei potuto raggiungere obiettivi maggiormente prestigiosi; probabilmente sarebbe bastato cambiare città. Io stavo bene a Roma, però; e la mia storia è andata avanti da sé.

Una carriera come la tua deve essere piena di episodi particolari, curiosi; te ne ricordi alcuni?

È vero, avrei tanto da raccontare. Ricordo con affetto il primo servizio. Ero “in panchina”, allora; questo per spiegarti che vestivo ancora i panni dell’assistente. C’era il Festival di Avignone e dovevamo produrre un servizio su un gruppo teatrale d’avanguardia, scattando di sera. Gli attori erano romani e simpatici; nacque persino un’amicizia. Tutto andò bene, soprattutto per merito loro: erano belli; avevano i capelli lunghi e gli sguardi accesi. Bello, l’episodio. In esso c’è tutto: la gioventù, la spensieratezza, persino quel pizzico di fortuna... Sì, quella che ci vuole sempre, o che devi saper sfruttare quando ti capita. Gli episodi successivi hanno un po’ tutti gli stessi ingredienti: i ritardi, gli uffici stampa, le pretese di tanti. Molte volte mi sono sentito meno libero. Quegli attori facevano tutto loro.

Il nudo è una parte importante della tua carriera...

Mi piace fotografarlo. Raccontare la bellezza è piacevole; anche responsabilmente importante e impegnativo. Ho sempre cercato di farlo bene, raccontando il soggetto e aggiungendo qualcosa di mio. Apprezzo l’armonia di un bel corpo, magari colpito dalla giusta luce. Nel nudo la forma conta di più della sostanza; ebbene, di quest’ultima io cerco di aggiungerne un poco. Cerco così la perfezione delle luci, delle linee, delle ombre. Lavoro per far sì che la modella diventi un personaggio, che possa ispirare un libro, una storia, un film; comunque qualcosa che accade.

Occorre un rapporto particolare con il soggetto...

Io penso di sì, ma vale anche per il ritratto. Spesso è necessario arrivare alla complicità. Insomma: quando si ritrae una persona, si è in due; anche nei confronti del risultato finale.

Fotograficamente, come ti definiresti?

Posso dirti da subito che la parola Glamour non mi appartiene; ormai se ne fa un uso smodato, per definire un genere che credo non debba essere il mio. Preferirei rispondere con fotografo di nudo, anche se mi sembra una definizione troppo cruda. Sento di amare il ritratto e sono convinto che tutti i miei scatti partano da lì. L’attività di oggi, poi, mi porta spesso di fronte a delle celebrità da interpretare per dei rotocalchi. Ecco il ritratto che riappare.

Qual è, a tuo avviso, la qualità più importante per un fotografo come te?

Io non sono mai stato un teorico della tecnica. Sul set, o in esterni, è giusto capire quando qualcosa non funziona; e questo mi viene dalla pittura. Per il resto, non so rispondere. Ecco, sì: la luce è importante; e tutto quanto aiuti a raccontare una storia. Generalmente arrivo sul set con qualche appunto, con qualche idea. Il tutto serve a creare situazioni, dove comunque vince la naturalezza. Il mio scatto deve apparire quasi rubato, pur nella cura di linee e dettagli: potrà sembrare contraddittorio, ma è così. Insomma: è l’idea a vincere, prima di tutto...

Vero. Per metterla in pratica, però, occorre ispirare fiducia.

La naturalezza è una caratteristica, ma anche un modo di essere...

Sono d’accordo. Ai tempi di Playboy, tutto veniva naturale. Le modelle, da parte loro, partecipavano a un periodo di grande cambiamento. Non c’era malizia, ma più libertà. La carriera veniva posta in secondo piano, spesso neanche considerata. Era diverso il mondo.

Tu parli di modelle, ma spesso hai “svestito” personaggi famosi...

Non tantissimi. Ricordo Laura Antonelli, Paola Pitagora...

Era diverso con loro?

In genere sì; c’erano gli accordi, i contratti, le limitazioni. Un personaggio famoso lo incontri in una circostanza ricreata, con la mediazione di qualcuno. Oggi poi la situazione si è esasperata. L’attrice che decideva di posare per me non rivelava sorprese, non barava. Ricordo che feci un servizio con Carmen Villani (cantante e attrice); ebbene, lavoravamo di notte con il piacere di farlo. Il risultato fu innovativo.

C’è, tra le tue, una foto alla quale sei particolarmente affezionato?

No, non particolarmente. Ci sono dei servizi che mi hanno restituito una notorietà maggiore. Quello con Laura Antonelli mi valse una doppia pagina su Playboy America. Tornando alla domanda, però, non riesco a trovare uno scatto “preferito”. Tieni conto che spesso, quando cercavi di essere innovativo, trovavi la contrarietà della redazione; lei portava avanti la sua linea editoriale.

Cambiamo argomento: qual è l’ottica che usi maggiormente?

Senza esitazioni: l’85 mm. Il settanta percento delle mie immagini è passato attraverso quella lente (150 mm per il medio formato). Ho usato pochissimo gli obiettivi “larghi” ed anche oggi le abitudini sono rimaste le medesime. La mia ricetta era: medio tele e pellicola a bassa sensibilità.

B/N o colore, cosa preferisci?

Colore, perché è ciò che chiedono i giornali. Anni addietro feci una copertina con Milly Carlucci in B/N. Ne venne fuori un personaggio particolare, non allineato con gli stereotipi che l’accompagnavano. Posso dirti che non mi piaceva la grana, anche se molti la cercavano. Ricordo gli scatti di Sarah Moon: belli, pittorici; e anche quelli di David Hamilton, con tutto quel flou. Io percorrevo strade diverse.

Come hai curato la tua formazione?

Bella domanda, importante peraltro. La mia formazione fotografica è cresciuta parallelamente a quella personale. Ho sempre letto, informandomi; perché viveva in me l’esigenza di sentirmi in progress. Oggi si parla troppo di tecnologia. Per carità, l’argomento è importante; anche perché ci aiuta. L’informazione, la cultura, il viaggio, la lettura, questi e altri sono tutti elementi che dovrebbero accompagnare la vita attiva di un fotografo, proprio per il senso di responsabilità che è insito nel mestiere.

Nella nostra chiacchierata, è la domanda alla quale hai risposto con maggiore entusiasmo...

Perché, permettimi, rappresenta l’elemento chiave. Il fotografo, con tutta l’umiltà possibile, si pone di fianco agli scrittori, ai registi: questo per il fatto di tendere a un risultato simile, almeno nei contenuti. Il talento è importante, ma anch’esso deve essere coltivato, prima ancora di metterlo in pratica. Solo così si può arrivare ad avere cura dei dettagli, quelli che vivono della composizione, dei colori, delle proporzioni; e pure degli oggetti, vintage in qualche caso.

È un ambito intellettuale quello che mi descrivi...

No, non sono un intellettuale; di certo, però, non mi sento un “gestore di tecnologia”. L’aspetto colto del mestiere è stato sottovalutato per troppo tempo, anche a scapito del linguaggio. Lo strumento, informatico per lo più, è diventato preponderante; e qui forse sta un po’ la sua colpa.

Mi stimoli a una domanda ovvia per dove siamo arrivati. Da analogico a digitale: qualche rimpianto?

Alla fine, no. Il fotografo rimane tale, al di là del materiale sensibile che monta in camera. All’inizio ho vissuto qualche piccola resistenza, poi mi sono reso conto che le nuove tecnologie finivano per mettermi nelle condizioni ideali per operare. Diciamo che, con la pellicola, il rapporto con lo scatto era più mediato. Certo, oggi l’approccio è più facile; e tutti siamo diventati fotografi. Tanta quantità può andare a scapito della qualità, ma sarà il tempo a risponderci. Ai tempi, per entrare nella fotografia ci ho messo tre - quattro anni, tutti spesi da assistente. Capivo le cose pian piano. Tutto cambia.

Curi personalmente il ritocco?

Ecco un’altra domanda gradita. La risposta è sì, perché mi piace. Rivolgermi fuori, poi, significherebbe riporre una fiducia che non provo, soprattutto pensando che altri possano mettere le mani sulle mie immagini. All’inizio non potevo fare diversamente, ma studiando (da autodidatta) ho raggiunto il livello che mi necessita.

Cos’è che ti piace nel poterlo gestire?

Lo facevo anche in gioventù, sui negativi in B/N. Poi vedo lo strumento vicino alla mia pittura. Alle volte s’intrude un po’ troppo, ma si hanno tante possibilità a disposizione; con un mezzo, poi, realmente molto potente. Bisogna averne consapevolezza, questo sì: tante opportunità nel “dopo” ci impongono grandi quantità (e qualità) nei contenuti. Sono cambiate le variabili di scatto, che debbono portare a un risultato più equilibrato possibile; il resto avviene a casa.

Dopo tanti anni, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?

Il mio rimpianto è quello di aver vissuto troppo tempo alla corte di una fotografia commerciale: prima come dipendente di una casa editrice, poi da solo. Mi piacerebbe dedicare le mie attenzioni a cose diverse, sempre in ambito imaging. Sto cercando di sviluppare un nuovo linguaggio, dove non devo dimostrare nulla. Sono attratto dal paesaggio, dall’architettura; anche se al momento mi sento confuso. Di certo vorrei la foto per la foto, senza la necessità che nessuno l’acquisti. Lo scenario esterno complica la mia visuale, soprattutto in ambito “art”, dove il mercato è fatto da altri: critici e galleristi in primis.

Pensi anche a delle mostre? O ad altro?

Sì, perché no? Ci sarebbe anche il WEB. Insomma, sto riflettendo; in quel poco tempo che mi rimane. C’è anche la possibilità che io non riesca a raccontare nulla di nuovo.

Prima parlavamo del ritocco: perché, ad esempio, non usare lo strumento al servizio di un’idea?

Anche lì vorrei fare qualcosa di più.

Potessi scegliere, quale foto scatteresti domani?

Oggi sarebbe difficile pensare a un nudo, o anche a un ritratto di una persona famosa: troppi filtri, troppi intoppi. Penserei a delle ragazze giovani, anonime; con addosso una bellezza inconsapevole. Quando gli anni sono pochi, tendenzialmente ci si affida; così può nascere il rapporto complice, vicendevole. Un’altra opportunità.

Puoi farti un augurio: cosa ti dici?

Mi piacerebbe continuare a produrre immagini in grado di raccontare, che parlino della mia visione delle cose. Vorrei metterci dentro tanta armonia: estetica e psicologica.



Buona fotografia a tutti

Roberto Rocchi

Roberto Rocchi, romano, è uno dei fotografi storici di nudo e glamour in Italia. Ha collaborato con il mensile Playmen anni 70’ e 80’ e all’edizione italiana di Playboy. Attualmente scatta fotografie di seduzione, ritratti di celebrità del mondo dello spettacolo per settimanali italiani e stranieri, oltre a tenere seminari.

Tante sono le sue esperienze fotografiche e i viaggi che hanno arricchito la sua persona. Il mondo della fotografia è entrato quasi per caso nella sua vita, divenendone poi lui stesso un “maestro”. Negli scatti si prende cura del più piccolo dettaglio, che rende esclusiva ogni immagine di nudo. Il resto sta nelle luci della composizione, ma anche nella sobrietà del suo lavoro, che vive in equilibrio tra rispetto e gioia, professionalità e libertà.

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