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Giorgio Galimberti

"IFaccio tutto io. La mia post è comunque rapida, perché tendo a raggiungere il risultato con la fotocamera. Diciamo che preferisco fotografare, ecco tutto; anche se al computer si chiude un processo, ed è per questo che altri non possono sostituirsi a me."
GIORGIO GALIMBERTI
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

ARCHITETTURE UMANE

Incontriamo Giorgio Galimberti a più riprese, l’ultima volta presso il suo studio a Meda, in Brianza. In tutte le occasioni si è sviluppato un dialogo schietto, onesto, dove la fotografia (finalmente) ne è uscita vittoriosa, quasi spavalda, senza malinconia. Di certo Giorgio è salito su un treno in corsa, perché figlio d’arte; ma da subito ha messo a disposizione se stesso, con generosità, comprendendo come la pratica dello scatto abbia una valenza relazionale: tra interprete e soggetto. Ecco quindi le sue fotografie, a nostro giudizio potenti e narranti, ma figlie di una ricerca assidua, istintiva, quasi naturale, voluta con forza. C’è tanto nero, nelle immagini che vediamo, profondo, intenso; e dei bianchi che si aprono abbagliando. In mezzo compare la persona, irriconoscibile e materica, definita per come abita e non per identità, elemento imprescindibile del contesto narrativo. Ci viene in mente Giacomelli, ma qui siamo altrove: perché non compaiono le tracce dell’uomo, bensì la sua presenza, come elemento del paesaggio.

Diamine, stiamo facendo confusione, o forse inseguiamo una regola che non c’è. Già, perché Giorgio si è assunto dei rischi, sovvertendo le regole; dipanando dei racconti che abitano un paesaggio urbano (o le architetture metropolitane) senza anticiparne un metodo, fuggendo dai luoghi comuni. Cosa abbiamo di fronte? Rischio o creatività? Coraggio o spavalderia? Parlando con Giorgio, abbiamo compreso come sia inutile formulare questo tipo di quesiti, forse addirittura dannoso. Lui ha solo risposto a se stesso, provando a conoscersi attraverso la fotografia. La sua narrazione vive tra i contrasti, come nei grandi romanzi d’autore, quelli che si leggono voracemente aspettando l’ultima pagina. L’idea finale, però, è lasciata al guardante, che potrà riconoscersi in quella persona che abita l’architettura umana di fronte a lui. Bene così.

D] Giorgio, quando hai iniziato a fotografare e perché?

R] Da giovane, sin da bambino: seguivo mio padre. L’ho fatto fino ai vent’anni, senza consapevolezza. Lavoravo con la fotografia istantanea, una malattia di famiglia. Poi, è arrivato uno stop, che si è protratto fino ai trenta, quando è iniziato tutto.

D] La tua è stata passione per la fotografia?

R] Certo, iniziata in ambito familiare; anche se non voleva entrare prepotentemente nella mia esistenza. Cercavo la mia strada, ecco tutto; perché la vita, prima, non mi appagava: facevo fatica a esprimere ciò che ero.

D] La passione, se pure iniziata lentamente, è stata importante?

R] E’ stata fondamentale. Il fotografo non può non essere appassionato. In caso contrario sarebbe un “fotografante”.

D] Come hai curato la tua formazione?

R] Sono stati importanti i dieci anni di stop che ti dicevo. In quel periodo, non ho toccato una fotocamera, ma ero presente alle mostre, leggevo libri, in più stavo vicino a mio padre. Non praticando, sono riuscito a crearmi un background culturale autentico, che voleva dire: guardare, leggere, comprendere. Direi che quegli anni di fermo mi hanno restituito anche la rapidità.

D] Hai avuto degli elementi ispiratori, dei fotografi che abbiano influenzato la tua crescita?

R] Mio padre, prima di tutto. Senza di lui forse non avrei neanche iniziato. Mi ha trasferito l’amore per lo scatto, la religione che ne è alla base. Se vuoi degli altri nomi, eccone alcuni: Giacomelli, Sudek (per le luci), Kertész (il mio preferito, al momento). Non dimenticare il cinema, per me grande fonte d’ispirazione.

D] Il cinema vuol dire contaminazione, sbaglio?

R] No, occorre contaminarsi: è fondamentale. Incontrando più mostre, più libri, più film, la nostra fotografia diventa maggiormente colta. La fotografia ha bisogno di cultura ed è lì che il fotografo deve intraprendere il suo percorso, senza fermarsi mai.

D] Fotograficamente come ti definiresti?

R] Amo definirmi come un romantico sognatore, colui che vuole raccontare la propria visione sul mondo in modo semplice e onesto, partendo dai pensieri che vivono nella sua mente.

D] Qual è la qualità più importante per un fotografo come te?

R] Fotografare con gli occhi carichi di pathos. Nello spettatore deve essere suscitata l’emozione, quasi proponendogli la fotocamera.

D] La fotografia deve suscitare meraviglia?

R] Sì, penso di sì. Ciò che mi piace maggiormente nella pratica della fotografia è che l’ultima parola spetta proprio a chi guarda.

D] Bianco e nero o colore?

R] Bianco e nero, per una scelta estetica: non c’è nessuna filosofia suffragante. La mia fotografia è maggiormente gradevole tra bianchi e neri. Se un’immagine mi piace a colori, la stampo così.

D] Neri profondi e bianchi trasparenti, perché?

R] E’ una cifra stilistica. Non ho mai dato ascolto alla tecnica. A me interessa che la grafica crei il mio sogno. I forti contrasti avvicinano di più ciò che desidero dire.

D] Nelle tue immagini, l’uomo quasi partecipa all’architettura …

R] Amo i paesaggi urbani, ma non sono un fotografo d’architettura. In pochi riescono a tradurre l’atmosfera urbana uscendo dalla tecnica. La mia è anche paura della solitudine, ecco quindi la figura umana, che alla fine crea anche un lato poetico.

D] Tu hai iniziato con la pellicola, dico male?

R] Sì, istantanea però; di rullini ne ho scattati pochi. Il film mi affascina. Si tratta comunque di solo divertimento, nulla più.

D] Nessun rimpianto per l’analogico, quindi?

R] Assolutamente no: gli sperimentatori vanno avanti, non indietro.

D] Ti senti uno sperimentatore?

R] Cerco di produrre una fotografia con una forte impronta stilistica.

D] Nello scatto sei un progettuale? Segui un progetto?

R] La soglia più difficile che ho dovuto affrontare è stata quella di far dialogare l’immagine con il progetto. Guardando i lavori dei miei colleghi, quasi mi sentivo costretto a farlo. Io credo nelle fotografie che per composizione e struttura possano vivere insieme nel racconto. La progettualità è arrivata quando ho preso coscienza del mio essere libero. Sappi, comunque, che il termine progetto proprio non mi piace. Preferisco parlare di momenti significanti.

D] Curi personalmente il ritocco? La post produzione?

R] Faccio tutto io. La mia post è comunque rapida, perché tendo a raggiungere il risultato con la fotocamera. Diciamo che preferisco fotografare, ecco tutto; anche se al computer si chiude un processo, ed è per questo che altri non possono sostituirsi a me.

D] Scatti in RAW, comunque …

R] Certo.

D] C’è tra le tue un’ottica che usi preferenzialmente?

R] Il 24 mm, anche se non sembra. Qualora non arrivassi, taglierei in post produzione. Il fotografo deve concentrarsi su ciò che vuole dire. Del resto macchina e ottica rappresentano una difficoltà, che si frappone tra idea e racconto.

D] Il 24 mm esprime in tuo stile …

R] Certo. Per lavoro uso anche il 24 – 70 mm.

D] Tra le tue fotografie ne esiste una che ami particolarmente? La preferita?

R] Ne amo tante, anche se la serie delle balene (scattate a Camogli) è quella che preferisco. Mi ha portato fortuna.

D] Com’è nata la serie delle balene?

R] Ero lì e con Ilaria abbiamo fatto delle prove. Due anni dopo è arrivato il Covid e le foto delle balene ha partecipato a una raccolta fondi, con successo. Da allora, ogni due anni eseguo uno scatto.

D] A questo punto della carriera, c’è un’idea rimasta indietro e che vorresti portare a termine?

R] Sì e riguarda l’Italia tutta. Ci sono tante piccole storie che vorrei mettere insieme, fermandone il tempo.

D] Hai fatto una verifica sui social, dico male?

R] Sì, ed è andata bene, perché quelle storie appassionano molto, anche il pubblico Instagram. Del resto, si tratta di attimi quotidiani, tra gente comune; e toccano sempre il cuore.

D] Tu stampi molto, perché?

R] Per me è fondamentale. La fotografia è oggettiva, tattile: profuma; puoi anche graffiarla o strapparla, se vuoi. Per il fotografo rimane comunque un bel momento.

D] Preferisci libri o mostre?

R] Ho esposto in numerose mostre, perché ragionavo con quella logica. Adesso rifletto in maniera editoriale e vorrei produrre più libri. Questi rimangono e testimoniano la mia fotografia.

D] Potessi dedicarti un augurio fotografico, cosa ti diresti?

R] Vorrei riuscire sempre a fotografare con lo stesso amore di quando ho iniziato. Curiosità e speranza mi hanno fatto compagnia da allora, perché io inseguo il mio sogno fotografico.

D] E alla fotografia tutta che augurio dedichiamo?

R] Che i fotografi siano generosi con la fotografia stessa.





Buona fotografia a tutti

Giorgio Galimberti

Note biografiche

Giorgio Galimberti nasce a Como il 20 marzo 1980.

Da sempre appassionato di fotografia, complice anche un clima familiare aperto all’arte e alla creatività, fin da piccolo comincia ad avvicinarsi al mezzo fotografico attraverso le Polaroid. Con i primi tentativi di manipolazione e alterazione dell’immagine, Giorgio esplora approfonditamente la dimensione giocosa del supporto istantaneo. Durante l’adolescenza, la passione non viene mai meno e, attraverso la frequentazione di numerose mostre ed esposizioni, unitamente ad un’intensa attività pratica in camera oscura, si costruisce un personalissimo background fotografico, basato principalmente sulle tecniche di sperimentazione dei grandi maestri che hanno fatto la storia della fotografia. Dopo un periodo di momentaneo distacco, durato qualche anno, Galimberti si riavvicina al mondo della fotografia digitale senza mai abbandonare del tutto la fotografia analogica. Attraverso la sperimentazione del bianco e nero perfeziona i suoi gusti e, memore della lezione dei grandi maestri della fotografia, si avvicina a una visione del mondo incentrata prevalentemente sugli effetti della luce sui corpi e sui paesaggi urbani, riprendendo alcuni elementi tipici della street photography e rielaborandoli in funzione di un linguaggio fotografico moderno e narrativo che unisce agli scorci di vita quotidiana le visioni sospese dell’architettura urbana con uno stile fortemente personale e riconoscibile. Numerose le sue partecipazioni a mostre personali e collaborazioni con importanti gallerie d’arte Italiane e Internazionali che gli hanno permesso di entrare nella fotografia autoriale. Si dedica alla didattica trasmettendo durante i suoi workshop e seminari il suo punto di vista sulla fotografia d’autore.

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