Se passa un giorno in cui non ho fatto qualcosa legato alla fotografia, è come se avessi trascurato qualcosa di essenziale. È come se mi fossi dimenticato di svegliarmi”. Queste sono parole di Richard Avedon, che già da sole rappresentano un grande insegnamento: per un appassionato la pratica (disciplina) dell’immagine dovrebbe rappresentare un modo per vivere, se non l’esistenza stessa.
Questione di stile
Avedon (1923-2004) ha comunque molto altro da dirci. Tutto in lui era stile, il suo: nella moda, nei ritratti, nel reportage. Cercava i contrasti, sempre: contrapponendo eleganza e bellezza alla durezza della realtà. Tra l’altro, non c’era mai ironia nelle sue immagini, ma una serietà drammatica, violenta, imposta. Di certo voleva sorprendere: non solo come atteggiamento, ma con l’intenzione di setacciare la vita nei suoi aspetti più cupi e violenti. Era il suo modo di esprimersi, riscontrabile anche negli scatti più curiosi, come Charlie Chaplin che fa le corna, Barbra Streisand che si tiene il naso (elegantissima quell’immagine) o Alfred Hithcock che pare pregare in modo ascetico, con gli occhi stralunati.
L’importanza dei gesti
In un discorso al MoMA, Avedon spiegò come fosse importante riorganizzare i gesti della persona fotografata: “Tutti gli artisti del ritratto devono pensare a cosa fare delle mani”. “Non è affatto vero che il ritratto è una specie di momento catturato all’interno di un flusso di gesti”. La posizione del soggetto, i suoi gesti, arrivano a rappresentare la sua psicologia e i suoi sentimenti: per questo Avedon era un convinto sostenitore del ruolo di elaborazione della fotografia, come luogo che non rappresenta mai la “verità”. Soleva dire spesso: “Un ritratto non è una somiglianza”. “Il momento, un’emozione o fatto che si trasforma in una fotografia non è più un fatto ma un’opinione”. “Non esiste una cosa come l’inesattezza in una fotografia”. “Tutte le fotografie sono accurate”. “Nessuna di loro è la verità”.
Tra (non) verità e interpretazione
Ascoltiamo ancora le parole del fotografo: “Tutti andiamo in scena”. “È ciò che facciamo per gli altri, tutto il tempo, deliberatamente o senza intenzione”. “È un modo per raccontare di noi stessi nella speranza di essere riconosciuti per quello che vorremmo essere”. La “non verità”, quindi, non è della fotografia, o almeno non solo; sono i soggetti ad andare in scena, per essere riconosciuti nel modo in cui vorrebbero apparire; e lì si è sempre realizzata la ricerca ritrattistica di Avedon. Richard Avedon mirava a rivelare i “veri” personaggi che si celavano dietro alle celebrità da lui ritratte. Ne è un esempio la seduta di scatti con M. Monroe, nel maggio del 1957. Avedon ha detto dell’attrice: “Per ore ballava e cantava, poi c’è stata la caduta, inevitabile”. “E quando la notte era finita e con essa il vino bianco e la danza, si sedette in un angolo come un bambino, come se tutto fosse andato”. “La vidi seduta tranquillamente, senza l’espressione nel suo viso”. “Ho camminato verso di lei, ma io non l’avrei fotografata a sua insaputa”. “Quando ho preso la macchina fotografica, mi sono accorto che lei non diceva di no”. Avedon è stato in grado di catturare una delle stelle più fotografate con l’espressione da bambina: uno scorcio della vita interiore di Monroe visto raramente nelle sue immagini.
Fotografia e psicologia
Le sedute fotografiche di Avedon costituivano una sorta di viaggio nella psiche del soggetto, in territori poco esplorati e spesso sconosciuti: c’è una luce speciale che fa di una persona comune una celebrità, ma spesso quest’ultima si porta dietro superbia, orgoglio, magia, ego. C’è dell’atro, quindi, del divo da esplorare e mettere al vivo. Il nostro fotografo lo faceva quasi con naturalezza, fidandosi di se stesso. “Mi fido delle mie intuizioni”, diceva “E faccio in modo che le cose accadano”.
Circa gli incontri fotografici di Avedon si sono dette tante cose, divenute persino leggenda. Rendere minimamente espressivi il duca e la duchessa di Windsor pareva un’impresa quasi impossibile: risultavano troppo impettiti, nobili, rigidi. Conoscendo la loro passione per i cani, Avedon li fece aspettare un quarto d’ora. Arrivò triste, affannato; dicendo: “Scusate il ritardo, ma il mio taxi ha travolto un cane”. L’espressione dei duchi cambiò, divenne meno tesa; e lui la ritrasse. L’incontro nel 1996 con Sharon Stone si risolse in un’autentica battaglia. Ad Avedon l’attrice non piaceva, particolarmente per il suo egocentrismo: “Le interessa solo se stessa e l’effetto che fa sugli altri”, diceva di lei. Litigarono, lei se ne andò; lui era furibondo, poi lei ritornò e il risultato è Sharon, piegata su se stessa, che sembra offrire spudorata il seno che si affaccia dall’abito molto scollato. Alcune voci (non confermate) narrano come lei avesse confidato al fotografo di essere leggermente sovrappeso; lui, in tutta risposta, le avrebbe suggerito di indossare una taglia in meno. Sappiamo solo come finì: Avedon aveva colto l’esibizionismo dell’attrice, il suo piacere di risplendere; il totale amore di sé.
Aristocrazia e potere
Avedon era un aristocratico, sempre; quasi un nobile altezzoso e arrogante. Il soggetto non scalfiva questo suo modo di essere. Poteva avere davanti attori, musicisti, politici, celebrità mondiali; oppure la gente comune: il suo atteggiamento non cambiava. Quando attraversò l’America, con uno studio portatile e una fotocamera a banco ottico, catalogò tutti i tipi di americani: minatori e contadini della provincia profonda, lavoratori, cacciatori di serpenti, venditori; ne sono nate immagini schiette, spietate, esaltanti nella loro crudezza. Mancava però la partecipazione, l’umanità, la solidarietà o la denuncia sociale. La sua fotografia era distaccata, mai messa in comune con i soggetti; com’è sempre stato, anche nella moda.
Che dire? Se lo poteva permettere. Al di là dell’atteggiamento, Avedon esercitava potere e forza. Chi posava davanti al suo obiettivo lo sapeva o se ne rendeva conto da subito. In fotografia lui ha “fatto cose” che altri non avevano neanche pensato di tentare. Chi avrebbe mai ritratto la modella Dovima tra gli elefanti? Lui volle farlo e vi riuscì.
“Dovima con gli elefanti” è stata scattata da Avedon al Cirque d’Hiver di Parigi, nell’agosto del 1955. La modella indossava il primo abito da sera disegnato per Christian Dior dal suo nuovo assistente, Yves Saint-Laurent. Nell’immagine vive tutto il contrasto che Richard Avedon metteva nelle immagini, quello voluto con forza.
La grazia diafana dell’indossatrice vive al fianco del potere brutale, quello degli elefanti sporchi e ruvidi. L’eleganza si esalta e diventa indimenticabile, come le altre immagini dell’autore: volute “con” e “per” forza; manifestando l’aristocrazia ed esercitando il potere.
Buona fotografia a tutti
Richard Avedon nasce a New York il 15 maggio 1923 da una famiglia ebraica benestante in cui la madre aveva alle spalle una famiglia di produttori di abbigliamento e, il padre, nello stesso settore, aveva un negozio, il Avedon's Fifth Avenue sulla Fifth Avenue. Questa vicinanza all’arte e alla moda, spinsero il giovane Richard, alla sola età di 12 anni, a iscriversi alla Young Men's Hebrew Association (YMHA) Camera Club, un’associazione per giovani ebraici con la passione per la fotografia. Con la sua Kodak Brownie Box cominciò il suo lungo viaggio all’interno della fotografia, dapprima immortalando abiti nel negozio paterno poi la sua famiglia, quindi sua sorella, vera e propria musa ispiratrice. Studiò presso la DeWitt Clinton High School in New York City, dove strinse una forte amicizia con il futuro grande scrittore James Arthur Baldwin, con cui diresse il giornale della scuola “The Magpie” dal 1937 al 1940; l’anno successivo, presso lo stesso istituto, conseguì il titolo di “Poet Laureate of New York City High Schools”, poi la laurea. Iscrittosi alla Columbia University per studiare poesia e filosofia, dopo un solo anno decise di abbandonare gli studi divenuti per lui troppo noiosi e decise di servire il proprio paese impegnato nella Seconda Guerra Mondiale; proprio presso la Marina Mercantile, con la Rolleiflex regalatagli dal padre prima della partenza, avrà inizio la sua carriera con l’incarico di realizzare fotografie per documenti di identità, foto di autopsie e di riconoscimento dei marinai caduti. Tornò in patria, nel 1944 si sposò (il matrimonio durerà solo cinque anni e terminerà con un divorzio) con l’attrice e modella Dorcas Marie Nowell (nota ai più come Doe Avedon) e, divenuto fotografo professionista, si iscrisse e studiò fotografia alla New School for Social Research in New York City, dove i corsi erano tenuti dal direttore artistico Alexy Brodovitch della rivista di moda Harper's Bazaar.
Proprio l’ammirazione da parte di Brodovitch lo farà entrare a far parte di Harper's Bazaar, il sodalizio durerà vent’anni e qui arriverà a ricoprire la carica di direttore della rivista. In questi anni non si fece mancare nulla, non solo foto di modelle, ma anche scatti e ritratti in bianco e nero di personaggi famosi come Marilyn Monroe, i Beatles, Martin Luther King, Malcom X, oltre a persone comuni, scene di vita ed episodi particolari come nel 63’ in Time Square, dove vengono immortalate svariate persone che espongono copie di giornali riportanti la notizia dell’assassinio del Presidente Kennedy.
Non è un caso se nel 1959 realizzò il suo primo libro “Observations”, con ritratti di personaggi famosi (un esempio? Picasso), il tutto correlato da testi di Truman Capote; nel frattempo, è il 1951, e trovò il tempo per convolare a nozze con Evelyn Franklin da cui ebbe l’unico figlio John, oggi scrittore.
Nel 1966 passò alla rivista Vogue (per la quale lavorerà per circa 25 anni) realizzando la maggior parte delle copertine e diventando direttore nel 1973, carica che rivestirà fino al 1988; nel frattempo, nel 1964, era uscito “Nothing Personal”, una nuova raccolta di fotografie in cui compare un saggio dell’amico James Baldwin.
E’ il 1973 quando esce “Alice in Wonderland”, in cui i personaggi ritratti hanno pose e gesti studiati, quasi fino alla teatralità mentre, l’anno dopo, fa scalpore con una mostra fotografica presso il Museum of Modern Art (MOMA) in cui “celebra” gli ultimi istanti di vita del padre dilaniato dal cancro.
Nel 1977, introdotto da un saggio di Harold Brodkey, pubblica “Photographs 1947-1977”, una raccolta di sue fotografie, i suoi primi trent’anni nella moda; otto anni dopo ecco “In the American West 1979-1984” in cui racconta, attraverso ritratti, la vita e la storia di vagabondi, minatori, cowboy e disadattati dell’Ovest degli Stati Uniti… non voleva essere di fatto solo un fotografo di moda e grandi personaggi.
Avendon collabora con importanti riviste come il “Rolling Stone” e il “The New Yorker” diventando, per quest’ultimo, dal 1992, il fotografo personale e principale di tutti i tempi; l’anno successivo vede la luce “An Autobiography”, in cui sono comprese 50 sue foto e poco meno di 300 scatti che variano da personaggi famosi come Marilyn Monroe e Andy Warhol, a sua madre e suo padre, senza tralasciare persone comuni e malati di mente, il tutto senza un vero ordine cronologico, ma quasi a creare una reale storia di vita. L’anno successivo, viene insignito del “International Center of Photography Master of Photography Award”. Nel 1994 vince il “Prix Nadar” grazie alla nuova raccolta “Evidence 1944-1994”, oltre 600 fotografie che celebrano 50 anni di lavoro: foto di moda, ritratti, schizzi, provini e lavori giornalistici.
Nella sua lunga vita fotografica ha ricevuto numerose lauree honoris causa, nel 2003 ha ottenuto il “National Arts Award” alla carriera e il “Royal Photographic Society’s Special 150th Anniversary Medal and Honorary Fellowship” per il contributo all’arte attraverso la fotografia.
Richard Avendon si è spento in Texas a San Antonio dove si trovava per lavoro, era il 1° ottobre 2004 e fu colpito da un’emorragia cerebrale; le sue opere continuano a essere esposte presso il Museum of Modern Art e Metropolitan Museum of Art di New York, e il Centre George.
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