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Settimio Benedusi

"È l’enfant terrible della fotografia di moda, il gianburrasca dell’obiettivo. Settimio Benedusi si racconta e ci racconta come diventare
un grande fotografo senza esserlo... ”
SETTIMIO BENEDUSI
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

Frequentiamo lo studio di Settimio Benedusi da molti anni. La prima volta ci meravigliammo dei due orologi a parete che indicavano la medesima ora: uno sotto recava la scritta Milano, l’altro Imperia. “Sono nato a Porto Maurizio”, disse Settimio, “I due orologi servono per rammentarlo”. Erano i tempi di Sports Illustrated e lui li ricorda ancora con piacere. “Quella di Sports Illustrated ha rappresentato una bella avventura. Si viaggiava fino all’altra parte del mondo, per dieci giorni, in località da sogno, con quarantacinque persone di staff. Si viveva il massimo della professionalità, quindi è stato un orgoglio arrivarci”. “Normalmente” - continua Settimio - “noi della moda, siamo costretti a viaggiare in posti obbligati, quali: Città del Capo, Miami, Los Angeles o Brasile, dove troviamo tutto: modelle, staff, truccatori, alloggi, logistica. Sport Illustrated si muove con tutto, ovunque.

Ne è passato di tempo da quel primo incontro, ma ci rendiamo conto sempre più come lui rappresenti, in tutto e per tutto, il fotografo d’oggi. Criticato da molti, osannato da altri, Settimio si pone sempre al centro della scena: da buon “egologico” quale lui si definisce. Non si tratta comunque di un semplice mettersi in mostra, bensì di incarnare a fondo la comunicazione, perché è lì che vive il mestiere ai tempi odierni. Del resto, è lui a dirlo, fotografare oggi è facile per chiunque eccetto che per i fotografi. Il risultato dal punto di vista tecnico è dunque a portata di mano. Ma ci vuole ben altro, e lui lo afferma con forza: si tratta di quel contenuto che parte dalle idee e dalle ispirazioni, perfino da se stessi, perché anche la bellezza deve avere un senso, coerente con quanto si vuole dire. L’ambito del discorso si sposta altrove, invadendo spazi culturali e di pensiero. È lì che nascono le contaminazioni “endogene” (egologiche?), fatte anche di bizzarrie e imprevisti, persino di errori. Lo scatto deve venir fuori pur che lo si senta, anche di pancia, se necessario. Settimio è tutto questo e molto altro ancora, sempre mosso dalla curiosità, dall’attenzione. Instancabile nel lavoro, non smette mai di informarsi: ascoltando, leggendo, occupandosi con entusiasmo delle nicchie culturali, del cinema, della musica. La spettacolarità dei suoi interventi, da molti criticata, nasce in realtà per una logica precisa: prendere le distanze da quel mondo dove tutto è possibile. L’ovvietà rischierebbe di affossare anche i contenuti e sarebbe un guaio, persino per la fotografia. Qual è stato il tuo approccio iniziale alla fotografia? Ho iniziato a fotografare a dodici anni, a Porto Maurizio, con una Rolleiflex biottica di mio padre. L’ossessione e la necessità di raccontare e raccontarmi sono state il mio motore. Dopo la Maturità Classica mi trasferisco a Genova per studiare legge. L’amore per lo scatto mi segue anche lì, con la forza di sempre. Se anche oggi guardo i lavori di allora, mi accorgo che hanno molti punti in comune con quelli attuali: tante persone, amiche, ragazzi... moda. Poi il grande salto? Anche durante gli studi mi resi conto di come la fotografia fosse la mia vita. La decisione seguente è facilmente immaginabile: ho mollato tutto e sono venuto a Milano per cercare di dedicarmi alla professione che adoravo. Iniziò così la tua avventura? Sì, anche se oggi tutto mi sembra più fattibile. Gli inizi sono stati quelli usuali: come assistente per i fotografi più famosi. Il percorso personale, però, è sempre stato contraddistinto da una crescita, per la qualità del lavoro svolto. Nel 1990 decido di mettermi in proprio, aprire il mio studio e mandare avanti tutto con il solo frutto del mio lavoro. Milano come capitale della fotografia? Non proprio. Forse accendo una polemica, ma qui da noi chi cerca un fotografo si rivolge all’estero: basta che guardi gli editoriali dei giornali. Milano (e l’Italia, perché la fotografia è tutta qui) in tal senso sta diventando la periferia. Non voglio farne un problema personale, perché non esiste, a rimetterci sono i giovani e le loro aspirazioni. Col tempo ci troveremo in casa un linguaggio fotografico povero, come la cultura che lo muove. Torniamo ai primi tempi... Il lavoro parte da subito, appena inizio l’attività in proprio, non sono mai stato con le mani in mano. Ovviamente allora c’era tanta pellicola e a tal proposito posso essere un testimone “attivo” del cambiamento di tecnologia. Qualche rimpianto per la pellicola? Nessun rimpianto: questa è già una risposta. Si lavorava meno, ma cosa ti rimaneva? Uno “scatolotto” di diapositive? Ai giorni nostri hai molto di più. Sotto questo punto di vista oggi sento la macchina più mia, maggiormente vera. Come vedi non te ne ho fatto un tema di qualità, come spesso si tende a fare ma di risultato e comportamento. C’è poi da considerare gli strumenti che girano attorno al lavoro. Se parliamo di scatti a destino tipografico il digitale è quasi d’obbligo. Volendo fare altre cose, beh è come scegliere il cavallo per andare da Milano a Roma: affascinante finché si vuole, ma... Arriviamo allo scatto. EOS 1D X è la macchina: con quali ottiche? L’EF 50mm f/1.2L USM. Lo utilizzo nel 99% dei miei scatti. Sì, d’accordo, mi piacciono anche altre cose: tipo lo sfuocato del 300 mm f /2,8, ma l’ottica standard la preferisco per il punto di vista, per l’approccio, per il comportamento che induce. C’è poi da considerare cosa si vuole ottenere. La la forza di sempre. Se anche oggi guardo i lavori di allora, mi accorgo che hanno molti punti in comune con quelli attuali: tante persone, amiche, ragazzi... moda. Poi il grande salto? Anche durante gli studi mi resi conto di come la fotografia fosse la mia vita. La decisione seguente è facilmente immaginabile: ho mollato tutto e sono venuto a Milano per cercare di dedicarmi alla professione che adoravo. Iniziò così la tua avventura? Sì, anche se oggi tutto mi sembra più fattibile. Gli inizi sono stati quelli usuali: come assistente per i fotografi più famosi. Il percorso personale, però, è sempre stato contraddistinto da una crescita, per la qualità del lavoro svolto. Nel 1990 decido di mettermi in proprio, aprire il mio studio e mandare avanti tutto con il solo frutto del mio lavoro. Milano come capitale della fotografia? Non proprio. Forse accendo una polemica, ma qui da noi chi cerca un fotografo si rivolge all’estero: basta che guardi gli editoriali dei giornali. Milano (e l’Italia, perché la fotografia è tutta qui) in tal senso sta diventando la periferia. Non voglio farne un problema personale, perché non esiste, a rimetterci sono i giovani e le loro aspirazioni. Col tempo ci troveremo in casa un linguaggio fotografico po- vero, come la cultura che lo muove. Torniamo ai primi tempi... Il lavoro parte da subito, appena inizio l’attività in proprio, non sono mai stato con le mani in mano. Ovviamente allora c’era tanta pellicola e a tal proposito posso essere un testimone “attivo” del cambiamento di tecnologia. Qualche rimpianto per la pellicola? Nessun rimpianto: questa è già una risposta. Si lavorava meno, ma cosa ti rimaneva? Uno “scatolotto” di diapositive? Ai giorni nostri hai molto di più. Sotto questo punto di vista oggi sento la macchina più mia, maggiormente vera. Come vedi non te ne ho fatto un tema di qualità, come spesso si tende a fare ma di risultato e comportamento. C’è poi da considerare gli strumenti che girano attorno al lavoro. Se parliamo di scatti a destino tipografico il digitale è quasi d’obbligo. Volendo fare altre cose, beh è come scegliere il cavallo per andare da Milano a Roma: affascinante finché si vuole, ma... Arriviamo allo scatto. EOS 1 D- X è la macchina: con quali ottiche? L’EF 50mm f/1.2L USM. Lo utilizzo nel 99% dei miei scatti. Sì, d’accordo, mi piacciono anche altre cose: tipo lo sfuocato del 300 mm f /2,8, ma l’ottica standard la preferisco per il punto di vista, per l’approccio, per il comportamento che induce. C’è poi da considerare cosa si vuole ottenere. La Meglio pochi interventi quindi? Non è questo, anzi! In tre minuti possiamo far di- ventare belli tutti. Io dedico anche tre ore a uno scatto, ma l’intervento è impercettibile. Partiamo poi dal fatto che mi porto dietro, culturalmente, il senso dello scatto. Quando apro i miei Raw siamo già molto vicini al risultato finale. Tre ore per una foto? tornando alla mia figura di arbitro tra analogico e digitale, forse anche qui deve essere ricercato il cambiamento. Una volta consegnavi i rullini e basta. Oggi devi avere competenza di profili, conversione colore, calibrazione e via dicendo. Senza contare le attrezzature tecniche necessarie. Il monitor, i computer, la stampante e via dicendo. Sotto questo profilo, torna importante l’affidabilità delle fotocamere. Una volta avevi bisogno di un oggetto che impressionasse rullini. Certo, volevi anche buone ottiche, accuratezza nell’esposizione e via dicendo. Oggi la fotocamera s’inserisce in un flusso di lavoro che si apre e chiude di fronte alla stessa persona: una scarsa affidabilità rischierebbe di compromettere tutto il processo. Insomma Digitale è bello... Digitale è bello, ma digitale è tutto. Pensa, oggi chiunque in casa propria può prodursi un piccolo libro da solo e senza grandi costi. Ma disporre di attrezzature di livello risulta ancora costoso. tutto questo vuol dire un livello medio che avanza, ma anche una certa selettività in alto. È intererssante il tuo concetto di verità nella fotografia. È una questione di approccio, di comportamento. Con il tempo non penso di aver imparato a ritrarre meglio le persone. Di certo, però, credo che il mio percorso mi abbia permesso di tirare fuori dalle persone una maggiore sincerità. Hai fatto corsi? Studi particolari? No, sono completamente autodidatta. Diciamo che la passione applicata quotidianamente è diventata disciplina e quindi metodo di apprendimento. E poi le nottate in camera oscura! La fotografia nasceva lì! Al di là delle tecnologie, bisogna ricordarsi di scrivere con la luce, di raccontare e parlare con essa, di valutarla. troppo spesso oggi si fanno cose “ra- pite”, nella speranza o anche con la convinzione di metterle a posto dopo. Occorre conservare il “senso dello scatto”. veniamo allea modelle. Mito per molti... Inutile e dire che la modella è molto importante. Due sono i valori da condividere con lei: verità - come dicevamo anche prima - ed emozione. Il rapporto professionale deve essere molto stretto. Occorre spiegare cosa si vuole ottenere, anche durante lo scatto. Quando insegnavo all’Istituto Europeo di Design, dicevo agli studenti che la modella deve conoscere il film che andrà a interpretare e in quale ruolo. L’intelligenza è la qualità “principe” di chi posa. Non a caso chiudevo sempre le mie lezioni con: “Preferisco una brava modella a una bella”. Poi c‘è la scelta: alcune sono adatte a un lavoro e non a un altro. Un servizio di moda può puntare sull’eleganza, mentre un altro deve rivolgersi alla gioventù, o all’aggressività, e via dicendo. Sono tutti film diversi che esigono interpreti specifici. L’elemento femminile è tuttora al centro della fotografia? Sì, è vero. troppo spesso però si attribuisce a esso la riuscita o meno di un’immagine. Mi dicono spesso: “tu hai a disposizione donne da sogno in località fantastiche, ottenere bei risultati è fin troppo facile”. Nulla di più sbagliato. È vero semmai è il contrario. La bellezza rappresenta uno strumento per l’idea e utilizzarla non è così agevole. Una top model di fronte a un’inconsapevole non è detto che ne esca bene. A monte occorre un progetto, la storia che noi fotografi diciamo spesso di voler raccontare, è quest’ultima a esaltare l’estetica prendendone l’aspetto che conta. Ci sono immagini tecnicamente sbagliate che però funzionano a meraviglia: hanno dentro la forza del pensiero. cosa chiedi per il tuo futuro? Nulla di più di quanto mi stia già accadendo. La risposta quindi è: che vada avanti così il più a lungo possibile. Ho potuto dire di “no” a lavori che non mi piacevano, questo è importante. Poi sono arrivato a Sports Illustrated dove ho avuto la massima libertà d’azione, nelle scelte e negli scatti. In realtà le cose non vanno avanti all’infinito, com’è giusto che sia. Adesso sono soddisfatto. .



Buona fotografia a tutti

Settimio Benedusi

Settimio Benedusi Nasco in provincia di Imperia. Passo la gioventù in maniera irresponsabile e vuota, approfittando in tutte le maniere del boom economico degli Anni ‘60. Mi trascino per le varie scuole. Leggiucchio un po’ qui e un po’ lì. Mi viene regalata una macchina fotografica tramite la quale penso di rendere le mie giornate adolescenziali meno noiose. Intorno ai vent’anni, trascinandomi ancora più svogliatamente negli studi di legge, mi sposto a Milano, cercando di far diventare la fotografia la mia professione. Sono i mitici Anni ‘80 e sarebbe facile anche per un’idiota fare qualcosa: ci riesco infatti anch’io. Faccio prima l’assistente, poi, dal 1990, il fotografo per mio conto. Un’innumerevo- le serie di botte di culo fanno in maniera che mi trovi nel posto giusto al momento giusto. Riesco addirittura a prendere la tessera da giornalista. Giro il mondo, convinto presuntuosamente di fare qualcosa di pericoloso e innovativo mentre invece vengo portato in giro come un fighetto milanese. Per un’ennesima botta di culo comin- cio nel 2003 un blog sul mio sito, dove, usando parole come sincerità/verità/compartecipazio- ne. Riesco così bene a distribuire del fumo che mi chiamano a insegnare in posti prestigiosi. Continuo a fare fotografie scopiazzando di qui e di là, e confondendo la mia indolenza e pigrizia con velocità ed efficenza. Prima o poi il mio culo passerà e le mie fotografie faranno la fine che si meritavano fin dall’inizio: l’oblio!”.

Nasco di fronte al mare, sotto il segno dei gemelli. La curiosità è uno dei miei primi ricordi, che sod- disfo andando al cineforum con dibattito, leggendo Steinbeck, Andrea Pazienza, calvino e ascoltando la musica di De Andrè come un pazzo. Faccio il liceo classico, avendo come compagno di banco un genio folle, claudio, che ora fa l’insegnate di matematica all’università. Grazie a mio papà, verso i dodici anni - lo ricordo come se fosse ora - vengo stregato dalla fotografia. Pur frequentando l’università di giurisprudenza verso i vent’anni mollo tutto e, non conoscendo niente e nessuno, mi trasferisco a Mi- lano, allo sbaraglio. Gli inizi sono difficili, ma con costanza e tenacia riesco prima a fare l’assistente e poi, finalmente, il fotografo professionista. riesco fin da subito a pubblicare per riviste di tutte le maggiori case editrici. riesco a iscrivermi all’ordine dei gior- nalisti. Grazie alla passione per la scrittura da oltre dieci anni ho un seguitissimo blog, sul mio sito personale, e un’altro sul sito del corriere della Sera. Partecipo per sette anni consecutivi - unico italiano - alla realizzazione della celeberrima rivista di costumi da bagno Sports Illustrated. Faccio ritratti a tutto il gotha italiano. Grazie a questa positiva frenesia estendo la mia attività ben oltre la semplice professione, insegnando allo IED, facendo mostre, tenendo conferenze. Grazie alle mie fotografie ho avuto il privilegio di viaggiare in tutto il mondo, vi- vendolo in una maniera che sarebbe stata impossibile lo avessi fatto come semplice turista. Sono felice per tutto ciò che ho fatto fino ad ora, e spero che le mie fotografie rimangano per sempre come testimonianza della mia maniera di vedere il mondo e le persone. Infine: non butto mai la carta per terra”.

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