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Guido Harari

"Non è che ho passato tutta la vita sul fronte del palco, di certo però la musica è stata la mia passione più forte, e da lì ho cominciato.“
GUIDO HARARI
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

Guido Harari nel 2011 ha fondato ad Alba, dove risiede, la Wall Of Sound Gallery, la prima galleria fotografica in Italia interamente dedicata alla musica. Noi non ci siamo stati, ma da essa prendiamo spunto per parlare del fotografo di questa Altra Cover, convinti come siamo che solo lui poteva organizzare un’esposizione di immagini a carattere musicale.

Una domanda sorge comunque spontanea: esiste un dualismo tra musica e fotografia? Se sì, quali sono i punti di contatto? Sta di fatto che la realtà, quella di Guido, non è bivalente. Musica e fotografia vivono nello stesso spazio, mescolandosi. La galleria di Alba ne è una testimonianza diretta: divulga non l’im.

C’è dell’altro, comunque; e su più ambiti. Molte volte sentiamo parlare di passione, ma spesso questa scalda, motiva, induce, esalta; non andando oltre. Per molti resta uno spazio invalicabile tra l’esistere e il percepire, come se quel sentimento rappresentasse unicamente uno strumento da utilizzare alla bisogna. Per Guido non è così: lui della passione si nutre, vive, opera. Non a caso, le sue idee vanno oltre, anche al di là dello spazio temporale della sua vita. Ci dice che vorrebbe essere nato prima, per trovarsi “in fase” con gli anni ’60. No, non si tratta di un rimpianto, bensì di un riflesso nato da uno sguardo allargato: sempre propenso all’oltre, alla scintilla che illumina l’anima.

Per finire, ecco il ritratto: che lui ama sin dal contatto col soggetto, dall’incontro con lui. Spesso lo chiude con l’inquadratura, perché gli piace esserci, per sentirsi percepito. E allora la forza è tutta lì: tra piccolo e grande, tra dentro e fuori, tra interiore ed esteriore. Lui, Guido, cerca sempre; nutrendosi di passione. Sta a noi cercarla, magari in un ritratto chiuso: per giunta in B/N. C’è un moto perpetuo nel creare del nostro, un movimento continuo. Saltiamoci sopra, anche solo per capire.

Guido, quando hai iniziato a fotografare? E perché?

Iniziamo dal perché. Mio padre nutriva la passione per la fotografia e aveva una fotocamera a soffietto. Già l’oggetto mi affascinava, ma anche le immagini che il genitore riusciva a tirar fuori finivano per stupirmi: piene di buon gusto e ricche dell’attimo colto. Una passione partita da lontano, quindi ...

Quel tempo che poteva fermarsi deve aver lasciato un germoglio “latente” nei miei desideri, perché crescendo i miei interessi si spostavano nella direzione del rock e della musica in genere: Little Richard, Elvis; e poi, i Beatles e il primo Gaber. Verso i diciotto anni, eccomi in giro per l’Italia a seguire i concerti: però, come avvicinare gli artisti? Avevo negli occhi le copertine degli LP e i libri musicali, così pensai alla fotografia come metodo d’approccio per un mondo che volevo più mio.

Questi sono gli inizi, quindi. Tutta colpa della musica, dico male?

Diciamo che quello della musica era un ambito abbastanza sgombro. Di certo ho iniziato per la ragione che ti ho detto, apprendendo il mestiere sul campo. Al tempo non esistevano scuole, tantomeno avrei potuto fare l’assistente: solo la moda prevedeva quella figura.

Hai curato da solo la tua formazione?

Esattamente. Imparavo sul campo e dalle riviste con le quali mi “nutrivo”. Nel frattempo avevo intrapreso la strada del ritratto. La fotografia mi aveva restituito altri interessi, volti a interpretare attori, artisti, politici, industriali, aggiungendo allo scatto un sapore musicale.

Agnelli, per me, era una pop star come Bob Dylan. In fin dei conti, desideravo un ritratto diverso: pervaso da quella complicità che riconoscevo negli autori che preferivo. Generalmente i fotografi musicali erano amici dei musicisti, il che generava un pensiero unico che si estrinsecava anche nelle immagini. Io volevo la stessa cosa nei ritratti delle celebrità.

Il ritratto è stata la tua vera passione, dico male?

In effetti è così. Ho cercato di affermarmi in quella direzione, interagendo anche con i giornali, ai quali chiedevo di poter incontrare personaggi diversi. Dopo è cambiato il vento: sono spuntate le veline ed anche le stesse celebrità hanno modificato il loro comportamento. Credo che in Italia il ritratto fotografico non abbia mai raggiunto uno status proprio. Forse la responsabilità è dei giornali, degli editor; sta di fatto che non esiste, da noi, un gruppo consolidato di ritrattisti.

E tu come hai reagito? Cosa ne è rimasto del tuo ritratto?

Verso il 2000 mi ero stancato, anche per la disciplina in sé (quella del ritratto, appunto), perché alla lunga può essere frustante. Ho iniziato a pubblicare libri e sono nati quelli dedicati a Vasco, Mia Martini, Gaber. Volevo dare valore a un archivio che era aumentato nel tempo. Sappi che ogni volume è ufficiale, pubblicato cioè col consenso dei familiari. Adesso sto preparando un’altra pubblicazione, che comunque sancirà la fine del mio “periodo del libro”. Sto tornando alla fotografia: alla qualità, alla ricerca.

Foto o musica: quale passione prevale?

Sono andate di pari passo; del resto entrambe vivono in simbiosi. Pensa, a tale proposito, alle foto Jazz degli anni ’50 o alle copertine dei dischi. I contenuti si rafforzano a vicenda.

Parlami del ritratto, cosa ti spinge a scattare?

L’entrare nel personaggio, il comprenderlo. Ho sempre provato un senso di sfida quando dovevo interpretare chi mi stava di fronte.

Qual è la qualità più importante per un fotografo come te?

Se mettiamo ancora insieme musica e ritratto (o fotografia) direi che una cultura specifica non guasta: anzi. Occorre che il fotografo possieda un senso musicale, che può essere coltivato scattando i “live”. Dopo si può passare al ritratto del musicista che ha suonato, perché si è raggiunta l’empatia necessaria. Un’altra dote essenziale coincide col desiderio di incontrare, per essere partecipi. Un musicista un giorno mi disse: le tue immagini “vanno incontro”. Il mio è sicuramente un approccio più istintivo che tecnico, ma mi piace essere riconosciuto così: per l’empatia che si sviluppa tra autore e soggetto.

C’è, tra le tue, un’immagine alla quale sei particolarmente affezionato?

Sì, alcune direi. Tom Waits che corre con il mantello è una di queste.

Tu chiudi spesso l’inquadratura dei tuoi ritratti ...

È vero: c’è gente che nel volto racchiude un mondo. E poi, avvicinarsi vuol dire guardare dentro, esplorare. L’ambientazione alle volte distrae. Tieni conto che Gaber, la Montalcini o altri rappresentano dei titani.

Spesso dentro le tue immagini c’è il senso del viaggio ...

La musica è tutto questo: un messaggio itinerante, che viene evangelizzato. I generi, gli stili, si sono spostati per il mondo con vari mezzi. C’è poi il viaggio individuale: il tuo, il mio; quello che parla di un percorso intrapreso. Io da bambino ero molto timido e pensavo di potermi proteggere con la fotocamera. In realtà la fotografia è stata terapeutica: nel tempo mi sono dato in pasto a molteplici personaggi. Era galvanizzante, ecco tutto; e la motivazione mi portava a scattare anche tre celebrità al giorno.

Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?

Mi sento non sincronizzato con quanto avrei voluto fare. Se fossi stato cinque anni più vecchio, avrei potuto cogliere in pieno gli anni ’60. In realtà di quel periodo ho afferrato solo la coda. I fotografi musicali, quelli famosi per intenderci, sono del ’40; e hanno potuto ritrarre Jimi Hendrix o i tanti musicisti che sono mancati. Circa gli anni ’70, mi sono trovato in anticipo. Ho documentato qualcosa, ma la mia testa era volta ancora al decennio precedente.

Qual è il tuo rapporto col ritocco fotografico?

Lo faccio fare: c’è una persona (grafica) che mi aiuta in questo e a lei delego anche la stampa.

Rimpianti per la pellicola o per l’analogico in genere?

Nessuno. Alle volte sento la mancanza di un formato generoso, un 6X6 per intenderci; ma è più una questione d’approccio, non certo di qualità del risultato.

Preferisci scattare in B/N o a colori?

Amo entrambi. Di certo il B/N non permette distrazioni, consentendo di far vedere dell’altro. Sposta più avanti la visuale di chi guarda.

Qual è l’ottica che usi preferenzialmente?

Io non andrei oltre l’85 mm. Voglio essere vicino al soggetto e preferisco che anche lui riesca a percepirmi. Il tele schiaccia troppo le prospettive e poi io debbo parlare con chi debbo ritrarre, interagire con lui.

Potessi scegliere, quale soggetto scatteresti domani?

Forse degli animali. Non c’è alcuna relazione con quanto faccio, ma sento che l’istinto mi guida verso quella direzione.

Torno alla domanda: chi scatteresti domani tra i tuoi soggetti usuali?

Ne scelgo uno non vivente: Jimi Hendrix, su tutti!

Siamo alla fine: fatti da solo un augurio fotografico.

Voglio ritrovare il bandolo del viaggio, quindi desidero che viva ancora la curiosità che mi ha sempre contraddistinto. È una questione di motivazioni.



Buona fotografia a tutti

Guido Harari

Guido Harari Ispirato dai grandi fotografi di rock e jazz degli anni Cinquanta e Sessanta, Guido Harari si è affermato nei primi Settanta come fotografo e giornalista musicale.

Nel tempo ha esplorato e approfondito anche il reportage, il ritratto istituzionale, la pubblicità, la moda e il design dei propri libri. Numerose le copertine di dischi firmate per artisti internazionali come Kate Bush, David Crosby, Bob Dylan, B.B. King, Ute Lemper, Paul McCartney, Michael Nyman, Lou Reed, Simple Minds e Frank Zappa, oltre ai lavori per Dire Straits, Duran Duran, Peter Gabriel, Pat Metheny, Santana e altri ancora. In Italia ha collaborato soprattutto con Claudio Baglioni, Andrea Bocelli, Angelo Branduardi, Vinicio Capossela, Paolo Conte, Pino Daniele, Fabrizio De André, Eugenio Finardi, Ligabue, Mia Martini, Gianna Nannini, PFM, Vasco Rossi, Zucchero e la Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Muti.

Ha realizzato diverse mostre personali tra cui le recenti Wall Of Sound al Rockheim Museum, in Norvegia, e alla Galleria nazionale dell’Umbria, a Perugia.

È stato anche tra i curatori della grande mostra multimediale su Fabrizio De André, prodotta da Palazzo Ducale a Genova, e della mostra Art Kane. Visionary per la Galleria civica di Modena.

Tra i suoi libri illustrati Fabrizio De André. E poi, il futuro (2001), The Beat Goes On (con Fernanda Pivano, 2004), Vasco! (2006), Fabrizio De André.

Una goccia di splendore (2007), Fabrizio De André & PFM. Evaporati in una nuvola rock (con Franz Di Cioccio, 2008), Mia Martini.

L’ultima occasione per vivere (con Menico Caroli, 2009), Gaber. L'illogica utopia(2010), Pier Paolo Pasolini. Bestemmia (2015), The Kate Inside (2016).

Nel 2011 ha aperto ad Alba, dove risiede da diversi anni, una galleria fotografica (Wall Of Sound Gallery) e una casa editrice di cataloghi e volumi in tiratura limitata (Wall Of Sound Editions), interamente dedicate all’immaginario della musica.

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