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Alessandro Dobici

"Amo scattare all’aperto. Non è una questione di luce, ma credo che il soggetto si possa trovare maggiormente a suo agio, posando in confortevolezza. Lo studio è una scatola chiusa, che può restituire imbarazzo a chi posa davanti l’obiettivo. Tra quattro mura, spesso siamo costretti a ritrarre marziani."
ALESSANDRO DOBICI
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

Abbiamo parlato spesso con Alessandro, sempre con rinnovato piacere. I dialoghi parevano quelli che intercorrono tra persone che si conoscono da anni. Il merito va ascritto anche alla fotografia, non c’è dubbio: la passione comune; ma secondo noi c’è dell’altro, eccome. Ci rendiamo conto come Dobici abbia affrontato la fotografia col piede giusto, in una continua verifica con se stesso.

Anche gli inizi infantili gli sono stati utili, quando la madre lo chiamava a documentare le vacanze. Lì ha compreso il suo atteggiamento nei confronti dello strumento, del quale non poteva più fare a meno. Perfino in laboratorio, mentre curava le cromie di milioni di negativi, assorbiva immagini, le faceva proprie, con un bisogno che diventava compulsivo, necessità assoluta. C’è qualcosa in più, comunque; e l’ha capito anche Giovanni Cozzi, suo maestro: Alessandro non chiedeva nulla, semmai cercava. Ancora una volta ci troviamo a citare Edward Steichen, quando diceva: “Missione della fotografia è raccontare l’uomo all’uomo e ogni uomo a se stesso”. E attenzione, il fotografo lussemburghese non parlava di possedere la fotografia e nemmeno di che uso farne, semmai ce la metteva a disposizione, per chi avesse voluto raccontare e raccontarsi. E Alessandro si guarda spesso dentro, in quella solitudine che cerca tra un lavoro e un altro, lontano dalle false valutazioni e dai luoghi comuni; così è pronto per gli impegni futuri e anche nel dialogo con noi. Le parole funzionavano già, come se fossero state pronunciate da tempo. E allora? Impariamo una volta di più come il fotografo non abbia palcoscenici e nemmeno applausi. La sua pratica è relazionale, ma parte da dentro; e anche da quello stare soli che alle volte non guasta, anzi.

D] Alessandro, quando hai iniziato a fotografare e perché?

R] Ho iniziato da piccolissimo: avevo otto anni. Mia madre, in vacanza, mi chiedeva di scattare delle fotografie ricordo, permettendomi così di prendere confidenza con lo strumento. A diciotto anni ho ricevuto in dono dai miei fratelli un sassofono elettronico: cambiarlo con una fotocamera Yashica FX-3 è stato un attimo. Da quel momento ho iniziato a sognare fotografia, continuando a farlo anche quando lavoravo come assistente presso un laboratorio di sviluppo e stampa (Kodak express). Dopo un anno, sempre per merito dei fratelli, ho avuto la possibilità di lavorare con Giovanni Cozzi, entrando anche in società con lui, in uno studio che abbiamo diviso a metà.

D] Giovanni Cozzi, una grande persona: la fotografia tutta ne sente la mancanza …

R] Lui è stato il mio maestro: duro, severo, un vero capo. Non era facile per me lavorare al suo fianco, ma poi capii che ne valeva la pena. Mi parlava di responsabilità, da persona esigente. Per molto tempo siamo rimasti in contatto, anche quando le nostre vie si sono separate.

D] La tua è stata passione per la fotografia?

R] Sì, assolutamente: sempre e solo quella; che peraltro esiste ancora. Agli inizi, non speravo di poter fare della fotografia un lavoro, ma sognavo di poter fotografare. Lo comprese anche Giovanni e fu il motivo per il quale si convinse ad assumermi come assistente. Gli dissi che la carriera non m’interessava, anche perché non ne conoscevo le dinamiche. Ero giovane e per me era importante avere la fotocamera tra le mani.

D] La passione è stata (ed è) importante, dico male?

R] Assolutamente sì. Mi ha concesso l’opportunità di vivere con me stesso e pensare, con un atteggiamento simile, credo, a quello di un musicista. Alle volte inquadravo senza scattare, come faccio oggi quando posso rimanere solo. E’ interessante il fatto per il quale ho esposto in mostra immagini scattate per mio conto, in solitudine. Tra l’altro, non fui io a decidere di farlo, ma una ragazza, che a lungo insistette affinché organizzassi l’esposizione. Disse: “Se io mi emoziono davanti alle tue fotografie, perché non dovrebbe capitare anche ad altri?”. Lei conosceva Giuliana Scimè, critica e curatrice; la contattò e subito le rispose che se ne sarebbe occupata personalmente.

D] La passione è contagiosa …

R] Probabilmente. Mi capitò un altro colpo di fortuna, mentre ero a Cuba per un lavoro pubblicitario. Un giorno dissi a me stesso: “Domani mattina voglio uscire e scattare per conto mio”. Così feci e un giorno mi chiesero: “Si possono vedere gli scatti?”. A porre questa domanda era stato il Ministro della Cultura Cubano. Lì è nata la mostra esposta nell’isola caraibica. La RAI ne ha prodotto un ampio servizio.

D] Agli esordi, ma anche dopo, hai avuto degli elementi ispiratori? Dei fotografi che ti abbiano colpito particolarmente?

R] Il sogno continuava a vivere, giorno dopo giorno, durante quattro anni di scatti. Ho fatto ricerche e divorato libri (non vi era internet allora). Mi sono imbattuto in un libro di Peter Lindbergh e ho immaginato il suo modo di lavorare, cercando di farlo mio. Il caso ha voluto che me lo ritrovassi, di persona, in studio. “Fammi vedere qualcosa”, disse; ha poi scelto una fotografia, che io gli ho stampato nottetempo. Peter era in grado di far emergere l’aspetto più profondo dell’emotività vissuta dai suoi soggetti. Non ne conosco altri come lui.

D] Alessandro, come hai curato la tua formazione?

R] In semplicità. Trovo sia stato istruttivo l’anno trascorso presso il Kodak express, dove ero costretto a filtrare i negativi. Ho visto milioni d’immagini, tutte amatoriali; il che mi ha aiutato molto. Non ho studiato quasi niente, nel senso scolastico del termine; anche perché non credo si possa imparare la fotografia come sui banchi di scuola. Il fotografo autore (qui sta il punto) anche da adulto deve impegnarsi in autonomia, perché altrimenti andrebbe a compromettere la spontaneità. I giovani rischiano quando frequentano le scuole di fotografia. Chi sogna di poter scattare è un po’ un’artista, e da giovane risulta essere debole, eccessivamente malleabile. Io ho tenuto dei corsi, da docente; ma sin dall’inizio ho sempre precisato che non avrei insegnato nulla.

D] Dove preferisci lavorare, in studio o fuori?

R] Amo scattare all’aperto. Non è una questione di luce, ma credo che il soggetto si possa trovare maggiormente a suo agio, posando in confortevolezza. Lo studio è una scatola chiusa, che può restituire imbarazzo a chi posa davanti l’obiettivo. Tra quattro mura, spesso siamo costretti a ritrarre marziani.

D] Alessandro, credo tu abbia iniziato con la pellicola …

R] Sì, è ovvio. Mi hanno insegnato a stampare e l’ho fatto, a mano. Il digitale l’ho approcciato tardi, forse, nel 2005. Ricordo che lo sviluppo dei rullini mi metteva ansia e l’affidavo a un professionista di fiducia.

D] Stampi anche in digitale?

R] Sì, per la mostra ci siamo rivolti a uno stampatore, dopo un lavoro enorme svolto da me e la ritoccatrice.

D] Qualche rimpianto per l’analogico?

R] Ho un rimpianto professionale. Le dinamiche che ti portano a visionare tutto in tempo reale rappresentano un danno enorme, anche se diventa possibile riparare agli errori. Un tempo eri il comandante dello studio, tutti vivevano in balia del tuo operato. Io, comunque, non scatto quasi mai di fianco al computer.

D] Curi personalmente il ritocco?

R] No, c’è una persona che lo fa per me. Mentre interviene, quasi sempre sono alle sue spalle. Lavora con me dal 2005.

D] Alessandro, fotograficamente come ti definiresti?

R] Ritrattista. Amo emozionarmi osservando un volto, che poi è la stessa sensazione che provo mentre mi dedico al reportage. Quando si ritraggono personaggi noti, s’interpretano visi già indagati da altri: si può finalizzare un stile e comunque è più facile essere riconosciuti.

D] A tuo avviso, qual è la qualità più importante che un fotografo come te deve possedere?

R] Credo occorra mettersi a disposizione per un fine: la realizzazione di un’immagine, un atto sacro. Attraverso la fotografia ottenuta, passano miriadi d’informazioni. E’ poi necessario un rispetto forte dedicato al soggetto fotografato, che poi è la responsabilità che esigeva Giovanni Cozzi. In buona sostanza, il ritratto è un incontro, che deve diventare speciale.

D] Dopo tanti anni di carriera (venti, suggerisce il servizio su RAI 5) c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?

R] Ce ne sono diversi. Per il rispetto che nutro circa le persone che vorrei fotografare non ho forzato le richieste. Nel cassetto c’è un progetto di beneficenza che staziona lì da quattro anni.

D] C’è, tra le tue, una fotografia che ami particolarmente? La preferita?

R] Ce ne sono due. Una è in mostra, l’altra ritrae Claudio Baglioni: una silhouette del cantante, a sviluppo orizzontale. Si tratta di uno scatto sbagliato, ma ti fa rendere conto come spesso l’errore possa essere utile. Quell’immagine è più bella così di quanto non sarebbe stata se scattata correttamente.

D] Bianco e nero o colore: cosa preferisci?

R] Il B/N, tutta la vita. E’ una questione di gusti, ma credo anche che il colore possa rappresentare un elemento distraente. Preferisco che una donna con gli occhi azzurri risulti bella per lo sguardo e non per i colore dell’iride.

D] Roma, la tua città, ti ha offerto qualcosa fotograficamente?

R] Non sono la persona più adatta per rispondere. Frequento raramente il mondo romano. Lo stesso studio non porta il mio nome, perché vorrei parlare con gli altri colleghi.

D] Potessi dedicarti un augurio fotografico, cosa ti diresti?

R] Vorrei che chi decide la pubblicazione delle immagini lo faccia con coscienza, utilizzando gli scatti maggiormente talentuosi e non quelli che costano meno.

D] E alla fotografia cosa auguriamo?

R] Un utilizzo minore dei SW di ritocco. Se riducessimo il tempo dedicato al monitor, ne rimarrebbe di più per lo scatto, con dei risultati probabilmente migliori.



Buona fotografia a tutti

Alessandro Dobici

Note biografiche

Alessandro Dobici nasce a Roma il 14 dicembre 1970.

Ha otto anni quando, d’estate, sua madre gli chiede di ritrarla in quello che è il luogo delle loro vacanze da sempre, Capodarco di Fermo, nelle Marche. Alessandro prende in mano la macchina fotografica per la prima volta, ed è subito attrazione. Dieci anni dopo, per il suo diciottesimo compleanno, quando riceve in regalo dai due fratelli maggiori un sassofono elettronico, non ha esitazioni: lo cambia con una reflex, una Yashica fx3 – 2000. Con quella, comincia a fotografare tutte le volte che può, prediligendo alle persone paesaggi e oggetti. «All’inizio fotografavo solo paesaggi perché non volevo interagire con le persone. C’ero solo io, il mio obiettivo, nessuno poteva vedere ciò che guardavo. Poi col tempo ho capito che fare fotografie poteva essere il più importante, gratificante e bel modo di esprimere me stesso e di conoscere gli altri».

Insieme alla fotografia coltiva un’altra passione, il volo. Studia, si diploma in costruzioni aeronautiche, ma poi, come sempre, arriva il momento di scegliere. Decide che vivrà di fotografia e trova lavoro come assistente in un laboratorio di sviluppo e stampa, così riesce, fuori orario, a stampare anche le sue immagini, nello sforzo continuo di migliorare. Nel 1993, grazie a uno dei fratelli, ottiene un incontro con il noto fotografo Giovanni Cozzi e diventa il suo assistente. Lascia il laboratorio di cui nel frattempo era divenuto responsabile. È nello studio di Cozzi che impara che cos’è e come si gestisce un set fotografico. Sei mesi dopo, Alessandro inizia a scattare book e a fare progetti di reportage. Un anno più tardi, con l’aiuto del padre, rileva una quota dello studio di Cozzi.

Nel 1994 va a Cuba come assistente per un servizio di moda. Quando non è impegnato sul set, gira l’isola e realizza un reportage. Nel 1995 è in Islanda, ancora per un servizio di moda. S’innamora del Paese dove tornerà, negli anni seguenti, altre cinque volte. Molte delle immagini del progetto espositivo sono state riprese in questa terra lontana. Dopo tre anni nello studio di Giovanni Cozzi si sente maturo e alla fine del 1997 decide di rendersi indipendente in uno spazio proprio. La prima pubblicazione importante arriva nel 1996 con il settimanale Max: è un servizio fotografico ad Alessandro Gassman. Da allora, Dobici s’impone come ritrattista, amato dai più noti personaggi del mondo dello spettacolo, della cultura e della politica. I suoi ritratti sono pubblicati su prestigiose testate, tra cui Amica, King, L’Espresso, Harperʼs Barzaar, Max. «Mi interessa capire cosa c’è dietro e cosa hanno da dire le persone che incontro e fotografo. Il ritratto è un’occasione unica di poter rendere pubblico il mio punto di vista. E quando ritraggo un personaggio, cerco di raccontare la mia percezione sulla sua essenza, prima che sulla sua immagine». Nel 1996 realizza le fotografie di scena del film di Bigas Luna Bambola. Trovandosi sul set, la rivista Ciak lo invita a realizzare un servizio di ritratti al regista che rimane colpito dal lavoro di Dobici e lo vuole ancora come fotografo di scena nei film “La Cameriera del Titanic”, con Aitana Sanchez Gijon, e “Volaverunt”, con Penelope Cruz.

Appassionato anche di musica, decide nel 1996 di mettersi in contatto con Claudio Baglioni. Gli invia il suo book, senza sperare in una risposta. Invece, Baglioni lo chiama e lo incontra. Dobici torna in studio senza il ritratto del cantante, ma con qualcosa di molto più importante: la promessa di realizzare un libro. Diventa così il fotografo ufficiale di Claudio Baglioni. Lo segue durante i tantissimi concerti e i progetti speciali condivisi che costruiscono e cementano una collaborazione e un’amicizia che dura ancora oggi, da più di ventʼanni. Nel 1998 esce “C’era un cavaliere in bianco e nero”, pubblicato da Mondadori con oltre 250 fotografie di Baglioni tra ritratti e fotografie riprese durante i tour del cantante. Dobici firma anche la direzione creativa del volume insieme a Guido Tognetti. Nel 2001 fonda a Roma la Contents, uno spazio polifunzionale di 500 mq. La sua attività professionale s’intensifica, affermandosi anche nel campo della pubblicità, contribuendo al successo di importanti campagne per Fendi, Belstaff, Reebok, Hoya, Tim, Alice. Dobici continua a viaggiare e torna a Cuba nel 2002 e nel 2004 per realizzare le campagne pubblicitarie di Valtur. Essendo responsabile dell’immagine dell’azienda a livello mondiale, gira in quegli anni tutto il mondo. Nel 2002 viene chiamato da David Zard, uno dei più importanti produttori musicali italiani, per curare l’immagine del musical Notre Dame de Paris. Replica l’esperienza nel 2013 con Romeo e Giulietta. Dal 2004 al 2006 insegna fotografia alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma. La mostra “Alessandro Dobici, vent’anni di fotografia” è stata esposta a LʼAvana, Cuba, presso lʼInstituto Cubano de Amistad con los Pueblos dal 3 al 30 giugno 2017. Nel 2018 il Chiostro del Bramante a Roma e nel 2019 il Real Albergo dei Poveri a Palermo, e la Chiesa di San Calogero a Nicosia hanno ospitato le sue opere. Nel 2018 la RAI realizza un documentario biografico sulla sua vita e il suo lavoro. Nel 2019 viene trasmesso in prima serata su RAI5.

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