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Mauro Galligani

"La pellicola io la uso da sempre, stampando il bordo. Non amo il crop e Bresson ha fatto scuola in tal senso."
MAURO GALLIGANI
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

LA LUCIDITA’ DEL VERO

Incontriamo Galligani presso il suo studio: bello, moderno, di legno e vetro. Parliamo a lungo, io e lui, divagando quanto più si può: su episodi, storie, curiosità, fotografia. E’ difficile però comprendere il senso di tutte le sue parole, perché spesso diventano troppo facili, soprattutto per noi che ci siamo nutriti di attimi fuggenti o anche di “furto” del tempo. La sincerità è la prima dote che emerge dal colloquio con Mauro: “Non si può costruire una fotografia”, ci dice, “E nemmeno estrapolarla da uno scatto”. “Il bordo pellicola deve raccontare ciò che si è visto, e nulla più”.

Lasciamo parlare chi abbiamo di fronte, poggiamo anche la penna. Dobbiamo riflettere, adesso, subito: è il momento propizio per farlo. Davanti ci passa la storia di una vita, ma anche la responsabilità dedicata nel farla propria. Le fotografie di Galligani vivono di due variabili: tempo e racconto, con capo e coda. Poi si può dire tutto, perché il nostro è curioso, osmotico, attento, informato; riuscendo anche a non buttare via niente di ciò che ha visto, continuando così a imparare. Le ottiche fisse, la pellicola, il bordo nero del fotogramma, non sono vezzi stilistici, bensì punti d’arrivo di una disciplina tenace e rigorosa, perseguita come dogma fuori dalla mischia, al di là dell’abilità dei modernismi. La verità deve venir fuori senza retorica, trascritta come con carta e penna. E la lucidità del vero, e qui sta il merito. Giusto così.

D] Quando hai iniziato a fotografare e perché?

R] Ho frequentato a Roma la scuola di cinema, per tre anni. Non si trattava di una laurea breve, ma di un centro sperimentale per poveri, dal quale sono uscito col punteggio più alto. Professionalmente sono passato all’immagine fissa, perché ho concluso il percorso formativo come Direttore della Fotografia. A fine studi, sono passato al “Giorno” (quello ante Repubblica), poi al gruppo Mondadori e a Epoca; questo dopo un rapido passaggio presso “Il Milanese”, quello che doveva diventare il New Yorker italiano. Per Panorama ho fatto il picture editor.

D] Si tratta di un percorso splendido …

R] Ho anche collaborato a lungo per LIFE. Viaggiavo molto per loro, vivendo un’esperienza straordinaria. Tra l’altro, non venivo chiamato occasionalmente; se gli impegni mi rendevano indisponibile, aspettavano me. Un giorno mi trovavo a Recco, in compagnia di un giornalista di Epoca. Mi chiamano per affidarmi un progetto editoriale sulla città di Copenaghen. Io pensavo scherzassero, anche perché grandi nomi si occupavano di lavori del genere: Ernst Haas tra questi. In realtà, la scelta era caduta su di me perché non conoscevo la città danese. Mi suggerirono anche di passare una settimana là senza fotografare: impensabile per me.

D] La carriera ti ha restituito anche una formazione continua …

R] Vero: presso la scuola di cinema ho appreso la storia raccontata, al “Giorno” mi hanno insegnato la sintesi; lavorando a Epoca è stato indispensabile comprendere come un racconto debba possedere una testa e una coda. Tieni conto che al settimanale Mondadori lavoravo insieme a De Biasi, Bonetti, Lotti: una squadra di livello nella quale regnava il rispetto reciproco, pur nella competitività.

D] La tua è stata passione per la fotografia?

R] La fotografia mi appassiona, ma sono un professionista, non un amatore. Come dire: in vacanza non porto con me la fotocamera. Anche un viaggio in metro può essere una fonte d’aspirazione.

D] La passione è importante?

R] Molte sono le qualità importanti nella mia professione: passione, ma anche curiosità, sorpresa, sensibilità, previsione.

D] Mauro, hai avuto degli elementi ispiratori?

R] Sì, i miti della fotografia, quelli che uscivano dalla mischia. Ti faccio un esempio. Io ho documentato tanto sport. Alle Olimpiadi andavo con, in uno zaino, ottiche a messa a fuoco manuale. Ero mosso dalla mentalità di Epoca: non stare nel mucchio, ma andare da un’altra parte. A tale proposito, mi viene in mente Zimmerman e la sua freddezza. Ha fotografato il salto in alto, tra luce e buio: dopo una buona esposizione, lo scatto.

D] Altri elementi ispiratori?

R] Bresson, sicuramente; poi i fotografi di LIFE. Negli USA, la fotografia è vissuta in maniera più colta. David Burnett è un altro autore che mi stuzzica. Lui ha condotto una ricerca a New Orleans dopo l’alluvione. La fotografia deve accompagnare la notizia, altrimenti non vale. Non esiste il reportage creativo, come molti sostengono oggi. Per finire, non voglio dimenticare un altro grande: Werner Bischof.

D] Fotograficamente come ti definiresti?

R] Non ho mai pensato a come definirmi. A me piace raccontare storie per immagini, quasi un film in fotografia: ecco tutto.

D] Qual è, a tuo avviso, la qualità più importante per un fotografo come te?

R] Essere informato. Sapere cosa mettere insieme. Prevedere e aspettare. Perseverare.

D] C’è dell’altro che vorresti dire?

R] La fotografia vive dentro di te, per questo non son in vena di consigli. Posso solo dire ciò che ho sempre fatto, declinando il tutto a mo’ di suggerimento. Nel reportage, non costruite le fotografie, usate quanto vi passa il convento. Pensate e scattate al momento. La ricerca è importante, ma anche la tecnica, senza la quale il talento non conta.

D] B/N o colore?

R] Per cosa? Se posso decidere io, e se il colore non è indispensabile, il bianco-nero su tutto. La qualità delle emulsioni ancora oggi e decorosa. Una volta andavo in giro con tre pellicole differenti a colori, sempre DIA. Ad ogni modo, le alternative della tua domanda comportano altrettante mentalità. Ci sono soggetti che prevedono il colore e altri un’emulsione monocromatica.

D] Mi hai detto che hai documentato lo sport …

R] Sì, al Giorno; mentre per Epoca mi sono occupato delle Olimpiadi.

D] Tra le tue, c’è una fotografia che ami particolarmente, la preferita?

R] Ogni immagina scattata ha una sua storia e fa parte di te. Tutto poi è legato al momento raccontato. Io poi vivo tra alti e bassi: oggi mi piace, domani meno, poi di più.

D] Mauro, c’è un’ottica che usi preferenzialmente?

R] Dipende dal lavoro che devo svolgere. Uso tre M/C con 28mm, 105mm e 180mm, che alle volte sostituisco con un 300mm. Non utilizzo zoom.

D] Lasci qualcosa alle tue spalle, qualche risultato non raggiunto?

R] Il reportage incompiuto in Cecenia; anche se il mestiere mi ha sempre riservato delle immense piacevolezze, come i 15 giorni trascorsi nel deserto con i Tuareg.

D] Cosa spinge un reporter nel suo lavoro, una forza emotiva?

R] La curiosità, il viaggio, la conoscenza. Incontri persone straordinarie, che spesso ti meravigliano per le loro impressionanti capacità. In Africa ho conosciuto dei missionari di altissimo livello.

D] Le persone capaci fanno sorgere le notizie, dico male?

R] Certo, come Gio Ponti, Carlo De Benedetti, Silvio Berlusconi; con i quali ho avuto il piacere d’interagire.

D] C’è un progetto che non hai mai affrontato e che ti piacerebbe iniziare?

R] Vorrei raccontare i soldati italiani, la loro storia. Io sono antimilitarista, ma ne ho conosciuti alcuni, riconoscendone delle capacità straordinarie. Vorrei approfondire e occuparmi anche d’immigrazione.

D] Hai mai esposto le tue immagini? Hai mai organizzato mostre?

R] Non amo le collettive; di personali non ne ho esposte tante.

D] Ti piacciono?

R] Sì, se però vengono frequentate dalle scolaresche. Non mi piace fare vedere se sono bravo. Trovo molto interessanti i dibattiti universitari.

D] Credo tu abbia vissuto l’epoca d’oro della fotografia, cosa puoi dirmi di allora?

R] Non mi piace cadere nei luoghi comuni. Ecco, sì: non sono mai stato al bar Jamaica.

D] Potessi dedicarti un augurio fotografico, cosa ti diresti?

R] Io viaggio come una persona normale: lo straordinario è out in fotografia. Sarebbe bello tornare ai trent’anni per andare negli USA.

D] La pellicola salverà la fotografia?

R] Non so se sarà capace di farlo. Io la uso da sempre, stampando il bordo pellicola. Non amo il crop e Bresson ha fatto scuola in tal senso. Che dire? Siamo all’anno zero e sarà difficile venirne fuori. Oggi tutti scattano fotografie, senza alcuna base giornalistica. Del resto, basta fotografare disgrazie per raggiungere dei premi.



Buona fotografia a tutti

Mauro Galligani

Note biografiche

Mauro Galligani nasce a Farnetella, comune di Sinalunga (SI). Trasferitosi a Roma, frequenta la Scuola di Cinematografia, al termine della quale diviene direttore della fotografia. La storia del cinema e i maestri del neorealismo formano la qualità filmica dei suoi reportage. Nel 1964 viene assunto come fotoreporter dal quotidiano Il Giorno, entrando così a contatto con la migliore scuola di giornalismo italiano, che da allora segna la coerenza e lo stile di ogni suo servizio. Nel 1971 passa alla Mondadori. Dal 1975 al 1997 lavora per Epoca, non solo come fotografo ma anche come picture editor. È qui che vive il periodo d’oro del fotogiornalismo, in una delle più prestigiose redazioni al mondo. Per questa testata, Mauro Galligani segue i grandi avvenimenti della cronaca internazionale, dalle guerre in America Centrale, in Africa e in Medio Oriente, alla vita nell’Unione Sovietica, paese di cui segue da trent’anni ogni cambiamento. Dopo la chiusura di questo storico settimanale, il 25 gennaio del 1997, continua a svolgere la propria attività come freelance. Ha collaborato con alcune delle più importanti testate al mondo, fra le quali Life magazine.

(Biografia fonte FIAF)

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