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Antonio Schiavano

”Dai tempi della pandemia, ho iniziato a intraprendere un percorso di ricerca. Fotografo per come io vedo l’immagine scattata, senza vincoli, tentando di far comprendere chi io sia realmente. Sto lavorando tra figura umana e architettura. Io non riesco a operare sempre nella stessa direzione. Come con il cliente, devo propormi in maniera differente."
ANTONIO SCHIAVANO
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

ANTONIO SCHIAVANO, PROGETTO E LIBERTA’

Abbiamo incontrato Antonio Schiavano in un luogo insolito per un professionista navigato: a una lettura portfolio, dove mostrava i suoi lavori. Noi avevamo intravisto le sue fotografie, lui (forse) conosceva lo spirito di Image Mag. Ne è nato un dialogo sereno, cordiale, arricchente; privo di luoghi comuni. Già, non ci si è mai riferiti al passato, alla fotografia che era, a quel passato che non esiste più.

Diciamo che si sono messe a confronto idee e visioni, atteggiamenti, approcci, modi di essere e d’esistere. Per Antonio, la fotografia è la vita stessa, con tutti i dettami che la compongono. Studiava ingegneria e suonava la chitarra, ma l’aver intrapreso un’altra strada non ha rappresentato una fuga, tantomeno un rimedio. Entrambe le discipline sono servite come confronto, perché il suo progetto (che vedremo libero) era partito da lontano, forse anche con una parentesi inconsapevole. Già, il tempo ha fatto maturare in lui la consapevolezza necessaria, che sommata alla caparbietà ha reso possibile tutto: una carriera, il successo, la vita con (e per) la fotografia. Si definisce “artigiano”, Antonio; e l’appellativo piace anche a noi, perché quella figura maneggia, plasma, trasforma, prevede forma, contenuto e utilizzo. La sua esistenza, però, vive di una doppia anima: non per ambiguità, ma per il fatto di essere suddivisa in due parti, parallele tra loro. In una c’è quello che si deve, in un’altra c’è quanto riesce a vedere. Antonio salta spesso dall’una all’altra e lì poggia la sua libertà, il progetto continuo che lo anima, l’idea che diventa fatto guardando ancora avanti, più in là. Del resto, lui è osmotico: assorbe come una spugna. Quello che vede o sente non lo contamina: il progetto continua, imperterrito, con la stessa forza col quale era iniziato. Progetto e libertà sono anche questo. Bene così.

D] Antonio, quando hai iniziato a fotografare e perché?

R] E’ stato nel 1981. Mio padre aveva una Ricoh KR 10. Iniziai a usarla e compresi che qualcosa funzionava, molto meglio che con la chitarra. Nel 1981 andai a lavorare come cameriere a Punta Ala, così mi permisi una Nikon FE con tutto il necessario, flash compreso, e un armadio di pellicole. Incontrai Elisabetta Catamo, che si dedicava allo still life. Ne presi spunto, con un’interpretazione diversa, utilizzando doppie e triple esposizioni. La mia era un’immagine progetto. Arrivarono le prime soddisfazioni, vincevo concorsi; al circolo tutti m’incitavano. Studiavo ingegneria allora, ma io volevo mostrare il mio lavoro. Vivevo a Brindisi, allora mi trasferii a Milano. Le luci me le ero costruite da solo e stampavo autonomamente. Tutto si era trasformato in lavoro: la città lombarda mi offriva un mondo professionale. Le cose funzionarono per sei mesi, poi più nulla. Mi dissi: «Si sono accorti che non sono un fotografo» e mi domandavo come venirne fuori. Conobbi Renato Marcialis, il quale affermò: «Puoi venire da me, sei troppo bravo». Ogni giorno prendevamo un lavoro. Dal giugno ’89 operavo in banco ottico 13X18, senza l’aiuto del Polaroid. Ho sempre cercato di non farmi coinvolgere dal cliente.

D] La tua è stata passione per la fotografia?

R] Sì, innata. Quasi per scommessa, ho lasciato studi e città. Avevo messo da parte dei soldi, ecco come mi sono permesso sei mesi a Milano già agli inizi.

D] Dicevi che a Milano hai trovato un mondo professionale …

R] Non poteva essere altrimenti. Mi muovevo tra redazionali e pubblicità, peraltro preferendo i primi perché permettevano il confronto. Dal punto di vista economico, l’attività funzionava; e avevo creato uno studio fantastico. Sentivo di aver tradito la mia passione, quella del progetto fotografico, che si scontrava col dover rispettare un lay out. Oggi poi la pubblicità si basa sulla riconoscibilità del colore, che risulta essere il primo viatico per attirare il cliente.

D] Chitarra e studi hanno comunque fatto parte della tua vita …

R] Ho riscoperto la chitarra durante la pandemia, quando ho capito che in ballo c’era solo il cuore. Le competenze ingegneristiche le ho utilizzate per progettare lo studio.

D] Antonio, coma hai curato la tua formazione?

R] Con la volontà. A Brindisi leggevo di continuo le riviste, Fotografare e Fotopratica tra queste; poi mi recavo spesso in biblioteca. In quella città non potevo confrontarmi con nessuno, perché esistevano solo i matrimoni e la fotografia industriale. Nessuno riusciva a spiegarmi i piccoli numeri sugli obiettivi, mentre comprendevo come la tecnica fosse fondamentale. L’estetica, come quella delle cerimonie, da sola non basta, perché deve accompagnarsi alla conoscenza delle regole.

D] E’ così anche oggi?

R] Tecnica e creatività devono procedere di pari passo e sempre sarà così. Diciamo che col digitale è venuta a modificarsi la fotografia. Si tende alla perfezione, il che alla fine diventa un approccio sterile.

D] Antonio, hai avuto degli elementi ispiratori? Dei fotografi abbiano abbagliato il tuo sguardo?

R] Ero innamorato di Robert Mapplethorpe e Helmut Newton, quest’ultimo per come trattava il mondo femminile. Io mi occupavo d’altro, ma questi autori hanno permesso la mia riflessione. Guardavo e basta, pensavo a fondo: non ero una spugna e niente mi permeava. Come elementi ispiratori, potrei citarti altri nomi, che al pari dei precedenti contribuivano a solleticare il mio pensiero fotografico: Giovanni Gastel e Irving Penn; senza dimenticare Ansel Adams e la sua stampa.

D] Analogico e digitale, come vedi le due tecnologie?

R] L’analogico mi ha permesso di sperimentare, operando al di fuori degli schemi: facevo bollire le pellicole e manipolavo il Polaroid. Assaporavo la lentezza, il tempo che intercorreva tra scatto e risultato, l’ansia e l’adrenalina dell’attesa. Il digitale ha eliminato gli imprevisti, vedi tutto subito e puoi elaborare con facilità. Il cliente poi, se presente durante gli scatti, osserva subito le immagini, di continuo, e dice sempre la sua. Il digitale lo vedo come un aereo: ho intrapreso un viaggio. Ritoccando il RAW, comunque, cerco di emulare la pellicola.

D] Qualche rimpianto per la pellicola?

R] No, non direi; i due mondi sono diversi, anche se accomunai dal click. Dovendo e potendo farlo, sceglierei la pellicola, perché ti restituisce l’autorialità. Lo scatto digitale non è più tuo. Diamo uno sguardo al futuro: al digitale si è ormai affiancata l’intelligenza artificiale, che appiatterà tutto. Dopo rimarrà solo la fotografia autoriale: su pellicola o sensore? Vedremo.

D] Fotograficamente come ti definiresti?

R] Domanda importante, direi che il titolo “artigiano fotografo” mi si addice appieno. Del resto, still life e beauty hanno impegnato il mio lavoro. Quando riuscirò a scattare un ritratto con la “R” maiuscola, potrò dire di aver completato un percorso. Del resto, tanti fotografi sono arrivati al ritratto partendo da generi diversi, perché lì s’interpreta (Fabrizio Ferri insegna); e poi si tratta di un ambito sempre attuale, pur avendo avuto origine all’alba della fotografia.

D] Antonio, tra le tue, c’è una fotografia preferita? Quella che ami particolarmente?

R] Le prime che scattavo a Brindisi, perché in esse riconosco il sentimento puro. Sono partito da lì in un percorso di crescita. Diciamo che nei primi lavori c’è il bambino che gioca e, se posso dire la verità, mi sento ancora tale.

D] C’è un’ottica preferita? Un obiettivo che usi preferenzialmente?

R] Nella figura, uso l’85 mm alla massima apertura. Per il resto, dipende dal lavoro che devo affrontare. Ecco, non uso mai il tele o il super-tele, la prospettiva risulterebbe eccessivamente schiacciata.

D] Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?

R] Dai tempi della pandemia, ho iniziato a intraprendere un percorso di ricerca. Fotografo per come io vedo l’immagine scattata, senza vincoli, tentando di far comprendere chi io sia realmente. Sto lavorando tra figura umana e architettura. Io non riesco a operare sempre nella stessa direzione. Come con il cliente, devo propormi in maniera differente.

D] Stai pensando a mostre? Libri?

R] C’è tempo, ma la ricerca è già una modalità di avvicinamento. In seguito, arriverà il curatore. Anche qui, non mi pongo limiti di sorta.

D] Ti prendi i tuoi tempi?

R] Esattamente.

D] Ricerche diverse, progetti differenti: anche questa è una particolarità …

R] Fotografare vuol dire fotografare: tutto qui. Io amo scrivere la luce, ma anche leggerla; per questo, guardo di continuo il cielo.

D] In tre tue ricerche si nota un corpo femminile, qual è il tuo rapporto con esso?

R] In generale, desidero che il corpo manifesti i suoi difetti. Probabilmente il soggetto non si piacerà, ma i canoni omologati non sono giustificabili e non li apprezzo. La bellezza si esprime attraverso i difetti che mostra.

D] La tua è una fotografia realmente libera, dico male?

R] Sì, e mi esprimo così anche nel beauty. Per fortuna, le persone con le quali lavoro apprezzano questa mia caratteristica.

D] Mi parlavi di Marcialis …

R] Siamo vicini di casa.

D] La Puglia, da dove provieni, ti ha offerto qualcosa che abbia influito sul tuo percorso?

R] Il pugliese è una persona caparbia. Il disagio che si vive in quella regione mi ha permesso di affrontare le difficoltà qui. Sono felice di vivere a Milano. Certo, è bello tornare a casa e ritrovare il mare, la terra rossa, gli odori, gli ulivi. La città dove vivo oggi, però, è il crocevia di tanti capitoli di vita, permette a tutti di scommettere.

D] Possiedi molti libri fotografici?

R] Tanti, mi piacciono già al tatto. E poi, frequento spesso le mostre e l’acquisto del catalogo è quasi un obbligo.

D] Arriverà anche un tuo libro …

R] Ne parlavamo prima: la ricerca continua, più avanti ci penseremo.

D] Potessi dedicarti un augurio fotografico da solo, cosa ti diresti

R] Di continuare a fotografare per come avevo iniziato. Il libro rimane una bella ambizione. Dalla pandemia in poi, non sono più il criceto che gira nella ruota e mi sto innamorando nuovamente della fotocamera. Questioni di ricerca.





Buona fotografia a tutti

Antonio Schiavano

Antonio Schiavano, note biografiche in prima persona

L’interesse per la fotografia nacque nel 1981, a 17 anni per una reflex regalata da mio padre. Sulle prime non sapevo cosa farne, ma ben presto capii che sarebbe diventato il mio linguaggio di comunicazione. In quegli anni vivevo a Brindisi e la fotografia veniva considerata unicamente come fotografia di matrimonio. Studiato l’ABC decisi fin dall’inizio di non realizzare foto ricordo, ma di spingermi su ricerche precise, scontrandomi spesso con chi affermava che per ottenere una buona foto occorreva tanta tecnica. In un libro di Andreas Feininger trovai questa citazione che ha segnato il mio cammino: ”Chi non sa fare una foto interessante con un apparecchio da poco prezzo, ben difficilmente otterrà qualcosa di meglio con la fotocamera dei suoi sogni”. Un cammino iniziato con la fotografia still-life, scelta obbligata perché era più facile studiare le luci ed immortalare un oggetto. Non usavo i flash, ma delle luci auto-costruite al limite della sicurezza e della fantasia. Questo percorso di ricerca da autodidatta è durato sette anni. Al termine di questo Karma decisi di abbandonare gli studi universitari di ingegneria per far si che la zucca diventasse carrozza e trasformare il mio sogno di diventare fotografo in una splendida realtà. E così nel 1988 decisi di trasferirmi a Milano e presentare il mio primo Book e dopo solo 2 mesi, durante la visione del portfolio mi fu commissionato il mio primo lavoro, e dall’anno successivo ho avuto la fortuna di cavalcare il boom del Made in Italy. Alla fine degli anni ’90 decisi di aprire il mio primo studio e dopo una lunga ricerca il colpo di fulmine scoppiò in via Watt 10, in una vecchia fabbrica di bulloni. Lo spazio pur se trasformato ha mantenuto la sua identità, un loft day light dove, oltre ad una grande sala posa, si alternano ambienti con arredi di design utili a ricreare diversi set. Innamorato dell’insegnamento, e giornalista accreditato dal 1998, saltuariamente ho cercato di trasmettere la mia esperienza come docente in istituiti e accademie di fotografia, mantenendo così viva la passione per la ricerca di nuove idee e spunti creativi. Nei Workshop se posso cerco di non mostrare i miei lavori, ma soprattutto non fotografo, non parlo di tecnica, ma di metodo. Il mio obiettivo è quello di far capire il linguaggio espressivo di ogni partecipante per portarli a recepire il mio messaggio senza diventare una copia di me stesso. La sfida più grande è far fotografare agli studenti un foglio bianco. In questi anni ho lavorato con diversi brand cercando sempre di lasciare un’impronta diversa. Nel 2016 sono stato scelto da Huawei per testare i primi modelli di smartphone con fotocamera pensata per gli amanti della fotografia e tramite un evento live, ho dimostrato ai partecipanti come sfruttare al meglio le caratteristiche del proprio smartphone. Il mio spirito versatile e curioso e il ricco know-how, mi hanno portato a collaborare con svariate aziende (Alitalia, Avon, Cinzano, Deborah, Nivea, Korff, Kraft, Rilastil , The Bridge, Trussardi) e agenzie di pubblicità dove ho realizzato affissioni, campagne stampa, materiali promozionali, cataloghi, pop, btl. Della fotografia di oggi penso che le tecnologie aiutino, ma non vedono e non inventano. La realtà corretta nei pixel di un monitor non è più realtà oggettiva, ma disegnata. Un girasole può essere fotografato, filtrato, colorato e corretto per sembrare un dipinto ma non sarà mai l’essenza di luce che ci mostra un Van Gogh; e soprattutto non verrà mai percepito con la stessa intensità.

Io non sono Van Gogh.

Sono un interprete della realtà.

Quella da reinterpretare ogni volta.

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