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Raoul Iacometti

"Sono un professionista, con davanti venticinque anni di lavoro. Ho fatto in tempo a vivere i tempi buoni. Oggi si vive solo di progetti, perché tutti sono in grado di scattare belle immagini."
RAOUL IACOMETTI
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

IL TEMPO E IL TUTTO

Avevamo incontrato Raoul Iacometti tante volte, ma solo un paio di occasioni ci hanno permesso di conoscerlo a fondo, questo al di là dell’amicizia che ci lega. Lui è persona riservata e, per questo, fotografo vero. Chi racconta per immagini deve essere capace di ascoltare, capire, dedurre; senza che la sua personalità possa contaminare opinioni e contenuti. Raoul è tutto questo e l’ha confermato parlandoci. “E’ una questione di tempo”, ci dice, “Certamente non di quantità”. Si riferiva agli scatti, ma anche alla dedizione, alla passione, alla giusta misura con la quale attribuire valore all’immagine che sta scattando.

Musicista in età giovanile, Raoul ha mantenuto l’armonia delle note anche in fotografia. Le sue immagini raggiungono l’equilibrio con facilità, senza scadere nel formalismo. Sotto questo profilo, si presenta come un “esecutore” della realtà, al di là degli stili e delle specializzazioni. Del resto, uno come lui non poteva dedicarsi a un solo progetto, tantomeno a un argomento che chiudesse le sue capacità. Raoul dedica tempo all’immagine, proprio nel ribollire della passione. Quando preme il pulsante di scatto, il soggetto gli è chiaro, a fondo; e può interpretarlo. Il tempo è tutto e usandolo bene si può fare ogni cosa. Parola di Iacometti.

D] Raoul, quando hai iniziato a fotografare e perché?

R] Ho iniziato a fotografare a 16 – 17 anni, con le classiche foto agli amici, per via di una pratica ereditata dal padre. Sappi che ho suonato per molti anni, così ritraevo i membri del gruppo durante le prove. La fotografia ai tempi rappresentava un passatempo e niente più. Ho tante fotografie, tanti vintage anni’60, molte scattate dal padre. La fotografia è entrata seriamente nella mia vita durante i primi anni ’90, con le letture portfoli e i concorsi. Poco dopo diventavo professionista, con davanti venticinque anni di lavoro. Ho fatto in tempo a vivere i tempi buoni. Oggi si vive solo di progetti, perché tutti sono in grado di scattare belle immagini.

D] Che strumento suonavi?

R] La chitarra: country e finger picking. La musica ha rappresentato il mio primo amore e ancora oggi rappresenta una fonte d’ispirazione. Durante il giorno, indosso sempre le cuffiette. Del resto, corredo sempre le mie immagini con un brano musicale. Ero anche un collezionista di vinili.

D] Cosa ti piaceva ascoltare?

R] Crosby, Still, Nash e Young, ma anche i Led Zeppelin. La mia gioventù è coincisa con un periodo storico di grande musica, non come quella di oggi. Ascolto anche gli italiani, tra questi Fabio Concato è uno dei miei preferiti.

D] “La radio che passa Neil Young sembra avere capito chi sei”, è Ligabue a dirlo …

R] E’ vero, ma anche oggi ascolto la musica in auto, che ha un valore tutto particolare. C’erano le cassette allora e pochi, oggi, possono dire a cosa servisse la matita (o la Bic) sul cruscotto [Per riavvolgere la cassetta, n.d.r.].

D] Un ultima domanda musicale: che chitarra suoni?

R] Una Ibanez vintage del ’77 (o ’74?). Le chitarre le ho scambiate spesso con delle macchine fotografiche: tra le mani me ne sono passate tante.

D] La tua è stata passione per la fotografia?

R] Sì, anche se è sbocciata tardi. Probabilmente, però, tutto è iniziato prima, sin da quando mio padre mi ha messo in mano la sua Zenith; perché in molti vintage riconosco qualcosa in più, già nella composizione. Certo è che più passava il tempo e maggiormente la passione s’ingigantiva, fino a diventare totale.

D] Trovi che la passione sia importante?

R] E’ fondamentale, come anche in altri ambiti; oggi ancora di più. La tecnica produce belle fotografie, ma non le fa buone.

D] Coma hai curato la tua formazione?

R] In modo particolare. Non sono mai stato un grande studente e ho fatto tutto da solo, da autodidatta. Ho seguito dei corsi presso il circolo fotografico di Sesto San Giovanni, poi Antonio Grassi, un uomo FIAF, è riuscito ad aprirmi un mondo. Lui è morto prematuramente, ma ricordo il suo occhio particolare. Gli facevo vedere i miei lavori, aspettandone un’opinione. Ci sono amatori, in Italia, che spesso superano i professionisti.

D] In Italia si arriva alla professione partendo dall’hobby …

R] Adesso è un po’ diverso: tutto è cambiato; ci sono le scuole, gli istituti. Un tempo era obbligatorio partire dallo stato di amatore: non vi erano altre strade. Anche per la musica era così.

D] Sei stato assistente?

R] Sì, in uno studio che si occupava di food. Lì ho imparato la post produzione, perché nel genere se ne fa largo uso. La moda non mi è mai interessata e neanche lo still life, così il cibo rappresentava l’unico viatico per approcciare le luci artificiali.

D] Hai avuto degli elementi ispiratori?

R] Sì, assolutamente; tra questi: David Lynch, Wim Wenders, Joel David e Ethan Jesse Coen (i due fratelli Coen), Stanley Kubrick, che peraltro ha iniziato la sua carriera come fotografo.

D] Tutti registi …

R] Sì, del resto mi dicono che ho un modo di riprendere cinematografico. E forse proprio dal cinema parte la mia idea di progetto fotografico.

D] Tra i fotografi, puoi farmi qualche nome?

R] Tanti, a iniziare dai classici: Bresson e Horvat tra questi. Poi mi vengono in mente Irving Penn, Robert Mapplethorpe, Francesco Cito (una persona straordinaria, grande come fotografo e giornalista). Del resto, come dimenticare l’eleganza di Gastel? I colori di David LaChapelle? O la svolta di Franco Fontana? Tra l’altro lui mi ha premiato al Toscana Foto Festival. Avevo presentato un’immagine di mio padre che cucinava.

D] Come per la musica, anche in fotografia andiamo sui classici …

R] Ci sono tanti giovani bravi, che io scopro nella rete. Dedico un’ora al giorno a navigare tra i siti fotografici. Fa parte del mio aggiornamento.

D] Possiedi molti libri fotografici?

R] Tanti: dai classici, ai paesaggisti americani e giapponesi. Non me l’hai chiesto, ma il libro che preferisco è di Ernst Haas. Oggi non posso più comprarne: mi manca lo spazio.

D] Fotograficamente come ti definiresti?

R] Dipende. Faccio fatica a rispondere. Se penso al libro che mi ha dedicato la FIAF, trovo sedici capitoli tutti differenti per tematiche e contenuto. Amo il reportage e il ritratto, ma non mi sono mai dedicato a uno stile. I critici dicono di me che porto a fondo gli argomenti che affronto. Posso solo dire che mi piace la gente. Diciamo che sono un mestierante, di certo non un artista. Il termine fotografo quasi mi spaventa, perché risulterei collega di Horvat, Penn e altri. Diciamo che condivido con loro l’idea, la mentalità: va bene così.

D] Qual è, a tuo parere, la qualità più importante per un fotografo come te?

R] Pancia e passione, tenacia e costanza, voglia di fare. Ciò che mi spinge avanti è la forte motivazione che provo nei confronti della gente. Sono andato a Genova per incontrare un malato di distrofia muscolare. Ho scattato una fotografia e sono tornato a casa. Non è la quantità che conta, mi muovo anche solo per uno scatto. Serve pure a me: per capire. Si diventa buoni fotografi quando conosciamo i nostri limiti.

D] Tu hai iniziato con la pellicola?

R] Eccome. Possiedo tante DIA e un archivio corposo di negativi in B/N. A oggi ne ho digitalizzati due.

D] Qualche rimpianto per l’analogico?

R] No, bisogna andare avanti. Ovviamente, c’è il lato bello della pellicola; lo stesso che ti permette di imparare e pensare, di avere a che fare con il tempo. Oggi è tutto più veloce e si guarda subito lo schermo dopo lo scatto: io non lo faccio mai. Naturalmente tutto questo vale per le nuove generazioni e suona come una raccomandazione: non buttiamo via il tempo. Tornando alla tua domanda, non posso nutrire rimpianti per la pellicola, anche perché la uso ancora, assieme al Polaroid. Sai cosa mi manca? La 500C/M, e lì un po’ di nostalgia riesco a provarla.

D] Oggi si scatta anche molto …

R] E si fanno tante altre cose: le possibilità offerte dal digitale sono infinite. Avere tanti scatti a disposizione può essere un vantaggio. Lo sportivo, ad esempio, usava la raffica anche con la pellicola. Per il paesaggista è diverso: la frenesia potrebbe essere una sua nemica. Io comunque non mi metto dei problemi circa il mezzo. Ho usato spesso lo smartphone, addirittura per lavori commerciali. Non sono un dinosauro.

D] Bianco e Nero o colore?

R] In questo periodo sto vivendo il loop del colore. Il Bianco e Nero ha un fascino incredibile, anche perché ti costringe a pensare in quel modo: l’importante è sapere perché.

D] C’è, tra le tue, una fotografia che ami particolarmente?

R] Sì, ma tendenzialmente ricordo la situazione, il momento. Verso i miei lavori sono abbastanza critico. Emerge comunque la circostanza, come nel caso della danza: è l’esperienza di quegli istanti a piacermi, il fattore tempo.

D] Hai un’ottica preferita?

R] Il 50 mm. Ho iniziato con quello e ancora suona nelle mei corde. Ho un 50 mm f/1,2L di Canon e con la EOS 5D Mark III forma un’accoppiata incredibile. Amo molto anche le focali corte, perché ti consentono di avvicinarti. Il 70-200 mm lo uso poco, solo nella danza. Non dimenticare i cellulare: è dinamico e poco intrusivo.

D] Dopo tanti anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?

R] Ce ne sono un paio, ma prima desidero terminare quello sulla danza. Poi mi manca un libro: lo sento, ma sta andando per le lunghe.

D] Perché la danza?

R] Per caso, mi avevano chiesto delle immagini su una scuola e da lì è partito tutto, con anche l’aggancio con le piante, la natura. Ho studiato tanto per entrare in quel mondo, visionando diverse centinaia di fotografi di danza.

D] Curi personalmente il ritocco?

R] Sì, assolutamente. Controllo i colori, anche se arrivando dalla pellicola tendo a far sì che lo scatto sia vicino al risultato. Nel B/N sono un maniaco: lo voglio come in CO, così curo molto le mascherature. Gli stampatori mi fanno i complimenti.

D] Stampi da solo le tue immagini?

R] Lo facevo in CO, pratica che ho ripreso di recente solo per un corso. Col digitale mi rivolgo in esterni, anche se mi siedo di fianco allo stampatore sin dall’apertura del RAW.

D] Potessi scegliere, che foto scatteresti domani?

R] Vorrei ritrarre dei fotografi.

D] Perché?

R] Non lo so, mi è venuto in mente adesso. Al di là di ciò, vorrei produrre un’immagine che mi riguardi personalmente: un ricordo intimo, privato.

D] Puoi farti un augurio da solo: cosa ti dici?

R] Mi auguro di poter conservare la passione, e non solo per la fotografia, ma anche per la vita. Dobbiamo alimentare la motivazione in noi e anche negli altri, perché da soli non si va da nessuna parte.



Buona fotografia a tutti

Raoul Iacometti

Note biografiche

Sono nato troppo distante dal mare. Troppo. Talvolta ho perfino pensato che sia stato un dispetto. Se fossi nato accanto alle sue onde, al suo rumoreggiare sordo o al suo silenzio profondo, sarebbe stata tutta un’altra cosa. Penso che anche questa breve biografia avrebbe preso una piega diversa. Invece no - sembra una battuta banale - ma tutto ha remato contro, fin dall’inizio.

A Milano - l’anno poco importa, meglio dimenticarsene - il primo vagito, una sorta di recipiente d’acqua che ribolliva. La salute incespica e il medico di turno consiglia a mamma e papà salsedine e iodio. Ecco, io dico, se fossi nato direttamente su una spiaggia i miei piccoli polmoni non avrebbero fatto tanto disperare. Va be’, ma non esiste nulla di perfetto. Nulla che mi sia dato a sapere, ovviamente.

Comunque, nel corso degli anni ogni occasione è stata buona per fuggire dalla città, alla ricerca di un piccolo spazio salmastro, una spiaggia deserta dove riconciliarsi con sé stessi o semplicemente per ascoltare le onde, annusare l’aria che le muove. Nei miei ricordi di bambino c’è anche un piccolo porticciolo di pescatori dove mi rifugiavo a leggere e dove non tossivo più. Però, nonostante noi lo si desideri fortemente e in seguito ci si opponga in maniera ancora più decisa, si diventa grand, con annessi e connessi, si studia per un mestiere che probabilmente mai si andrà a fare, si inizia a viaggiare e si conoscono storie e persone. Direi che se ci si impegna un po’ e ci si lascia alle spalle la diffidenza, di sicuro si conoscono prima le persone e poi le loro storie, cronologicamente e umanamente meglio.

Così mi sono ritrovato con una reflex al collo, prima per piacere e poi per necessità. La porto all’occhio cercando di fare del mio meglio, con rispetto, sintesi, non molta tecnica e lasciando all’istinto la parte più importante.

E intanto il mare è sempre lì, immenso, calmo, trasparente, spumeggiante, piatto, in burrasca, muto, scuro, sconfinato e meraviglioso. Adesso lo vedo spesso e quando non riesco a vederlo lo sento muoversi dentro. Soprattutto mi sono convinto finalmente che essere nato distante non sia stato un dispetto, ma una logica opportunità di avere una biografia diversa.

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